Femmine

di Antonino Alessandro, meno di 20.000 cc

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  1. Alessanto
     
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    Ecco a voi:

    FEMMINE




    FEMMINE

    Bastò un pensiero per crearlo; ne fu sufficiente solo uno per immergerlo nella roccia e sotto il mare.
    Rimase lì, al buio. Al freddo. Dimenticato.
    Non sapeva cosa fosse la fame; la conobbe quando assaggiò la carne per la prima volta.
    E dopo la fame arrivò la necessità di una progenie.


    Odore del mare: questo era l'aroma di femmina.
    E lui di femmine non ne vedeva da tanto tempo. Troppo.
    Odore di conchiglie e molluschi morti. Uno scambio e ottenne ciò che voleva.
    Era fredda e viscida, ma non aveva avuto importanza. Erano bastati pochi colpi e si era arreso.
    Adesso era prigioniero del potere che aveva ricevuto.



    Trapani, Giugno 1776

    “Quello è matto, vi dico!” disse Antonio, facendo passare, con movimenti veloci, la zaccula tra le maglie della rete.
    “Oggi lavorò bene. A me mi basta!” gli rispose Zù Ninni mentre con l'unico occhio buono squadrava il lavorante. Antonio avvertì il peso dello sguardo ma decise di proseguire.
    “Zù Ninni! Ma dite vero? Quello fa sparire le persone; i soldi che vossia gli ha dato, poi, chissà come se li sta spendendo! Ieri, ho incontrato Teresa, sapete chi è, no? La moglie di Compare Fra'; quella che tiene il negozio di stoffa, sapete, bottoni, fili per cucine e via discorrendo.”
    “Sì, sì li conosco!” esclamò l'uomo di mala voglia, tralasciando la prima parte della frase: quell'Antonio parlava tanto, spesso troppo, eppure ascoltarlo era l'unico modo per passare le ore di lavoro. Con un gesto secco della mano lo invitò a proseguire.
    “Ieri l'altro è andato al negozio e gli ha chiesto un filo per cucire.”
    “E allora?”
    “Zù Ninni! Il filo doveva essere d'oro!”
    Antonio, pronunciata l'ultima frase, si mise ad aspettare a braccia conserte che il suo stupore diventasse quello di Zù Ninni.
    L'uomo, invece, gli concesse solo un'alzata di spalle e un “E allora? Ognuno può essere strano quanto vuole. Basta che lavora.”
    Antonio, incredulo, riprese ad armeggiare con la rete da pesca.
    Riprese a parlare dopo dieci minuti: “Eh, Zù Ninni, non ve ne importerebbe così poco se fosse vostra di figlia a essere sparita!” disse il ragazzo.
    “Mi spieghi che c'entra quel disgraziato con Giannina?” Zù Ninni lo sapeva bene ma voleva farlo parlare lo stesso: tutto pur di non crearsi il problema.
    “C'entra, c'entra” fece Antonio, felice di aver suscitato la curiosità del suo datore di lavoro. “Si dice che sia stato lui a farla sparire. Si dice anche che giochi con le carcasse e resti di animali morti sulla spiaggia. Michele, il figlio di Mastro Giacomo l'ha visto una notte che si aggirava tra i campi trascinando chissà cosa.”
    “Di cose in giro se ne dicono tante...”
    “È vero. Ma questa volta le voci hanno ragione. Il capitano c'è anche andato a casa!”
    “E cosa ha trovato?” domandò Zù Ninni, inarcando le sopracciglia.
    “Eh! Prima di tutto hanno visto che quello vive in una specie di fogna. Dicono che si dorma con i maiali. E poi nella sua barca hanno trovato il vestito di Giannina. Ed era sporco di sangue!” fece Antonio gli occhi strabuzzati e la voce che faceva trasparire tutto il biasimo che poteva.
    “E come mai non l'hanno arrestato, allora?”
    “Beh... Ecco... io...”
    “Te lo dico io perché, testa di legno! Nella barca di Peppe non hanno trovato niente di niente. Quello straccio non era un vestito ma uno straccio. E il sangue era quello di un tonno che Peppe aveva pescato. Perché credi a tutto?”
    Antonio si alzò. “Io ho finito. Se vossia non ha altri lavori me ne vado!” disse Antonio cercando, senza riuscirci di reprimere la frustrazione.
    Zù Ninni condì la situazione con una risata cavernosa, poi fece un cenno ad Antonio. “Vattene, va'! Tua moglie ti aspetta!”
    “Buonanotte, Zù Ninni, ci vediamo domani”
    “Ciao, Antonio” rispose l'uomo continuando a stuzzicare il sottoposto con un sorriso sornione. Vide il ragazzo percorrere un tratto di spiaggia; era a una trentina di metri quando lo chiamò: “Ehi! Antonio!”
    “Cosa c'è Zù Ninni?” domandò l'altro voltandosi.
    “Mi raccomando! Domani raccontami altro ché sono curioso!”
    Antonio si tolse il cappello e fece un inchino eccessivo: “Come Vossia comanda!” gridò, ridendo a sua volta.

    ***


    Marta guardò il sole e sorrise: al lavatoio non aveva trovato nessuno e adesso, con passo lento e la cesta con i vestiti puliti in equilibrio sulla testa, aveva tutto il tempo di tornare a casa, cucire la camicia del marito e preparare il pranzo.
    La donna percorreva il sentiero che, incastrato tra i sassi e i cespugli, si inerpicava sulla roccia a picco sul mare.
    Quando sentì il solletico alla caviglia pensò a un rametto.
    Poi il freddo limaccioso risalì verso il polpaccio costringendola ad abbassare lo sguardo. Batté le palpebre due volte come se non capisse, come se quell'appendice gommosa e verde fosse un'addizione troppo complicata. Come se l'incubo in cui il primo strattone la stava conducendo non potesse essere vero.
    Mentre gridava, trascinata lungo la parete scoscesa, vide il cesto rotolare dietro di sé; pensò a suo marito, ai suoi figli e ai panni puliti che si stavano impolverando.
    Continuò a strillare fino a quando non raggiunse la superficie liquida e cominciò a inghiottire sorsate amare.

    ***


    Quando quella mattina Peppe aveva ripreso coscienza la prima cosa di cui le sue sinapsi lo avevano avvertito era il mal di testa; la quinta volta in una settimana e la terza di seguito. Non pensava di avere il coraggio di vivere un'altra giornata.
    Grugnendo e raschiandosi la gola in un ammasso di colpi di tosse e grumi di catarro, aprì la persiana e si lasciò penetrare le narici dal fresco notturno che aleggiava ancora nell'aria. Lo scoglio solitario alla fine del promontorio sembrò salutarlo con un leggero bagliore ovattato.
    Sperando che fosse qualche barca ma sapendo bene cosa fosse, sospirò e fissò nuovamente Punta San Vittorio che si ergeva arrogante dalla superficie liquida.
    Tutto era cominciato da lì; era lì che aveva visto la sirena. Un tremito lo percorse dal collo giù fino all'inguine mentre le mani disegnavano nel nulla dei cerchi.
    Si massaggiò le tempie in cerca di un po' di sollievo.
    Sbuffò. Niente da fare; il martello che gli picchiava nel cervello proseguiva incessante la sua opera distruttiva.
    Peppe rientrò in cucina e si accomodò sull'unica sedia che possedeva; dopo una serie di scricchiolii nervosi il legno si convinse a reggere il peso suo e dei suoi quasi quarant'anni.
    “Diavolaccio” disse tra i denti, graffiandosi di nuovo la gola con un vigoroso colpo di tosse. Sputando sul bicchiere che stazionava sul tavolo da chissà quanto tempo gettò un'occhiata all'imboccatura della botola: quando non era lì sotto ci teneva sopra il cassettone di sua nonna ma la sera precedente si era sentito troppo stanco per trascinarcelo sopra.
    “Diavolaccio!” esclamò di nuovo, accompagnando l'imprecazione con un pugno sul tavolo.
    Vieniii...Peppe...Voglio te...
    L'uomo si stropicciò gli occhi.
    “Lasciatemi!” fece alla stanza vuota.
    Il mareee... Vieni con noiiii...
    Peppe schizzò in piedi e si diresse verso la botola; il suo urlo fu netto come il taglio di un coltello da esche: “NO! BASTA!”
    Nooo...
    Un oceano di scintille dolorose e colorate gli ferì le cornee.
    Peppe raggiunse la cassetta degli attrezzi che giaceva inerte nell'angolo più lontano della cucina e l'ammasso sbrindellato di carta umida sul suo comodino, poi muovendosi a scatti tornò alla botola, simulando con sé stesso una risolutezza che non possedeva.
    “Vi prego!” disse rivolto al tavolato macchiato di sangue rappreso.
    Le voci femminili non gli concessero tregua.
    Peppe... Tornaaa! Solo tu puoi!
    “Vi prego...” ripeté, questa volta implorando; il silenzio fu l'unica risposta che ottenne.
    Il pescatore afferrò la maniglia di ferro e aprì la botola. Il tanfo di pesce marcio, carne in decomposizione e alghe putrescenti lo investirono. Tirò indietro la testa. Poi un sospiro e scese la scala un piolo dopo l'altro.
    Giù trovò Marta. Un sospiro e si mise all'opera.

    ***


    La scrivania era ingombra di dispacci che si ergevano in cataste ordinate come bastioni di carta. Erano quasi tre ore che lo stavano interrogando. Aveva fame e sete e, come il capitano gli aveva fatto notare più volte, puzzava di pesce e sudore.
    “Avanti, Peppe, l'ultima volta e te ne torni a casa” disse il Don Felice, il capitano della Gendarmeria Reale simulando amicizia.
    “Come vossia desidera” rispose il pescatore sospirando.
    “Tu, allora, ieri notte eri a casa a dormire, vero?” chiese il capitano, il sopracciglio, unico e nero, si era arcuato per l'ennesima volta.
    “Sissignore! Vi pare che uno può andare in giro la notte a fare certe cose? Uno che si alza per pescare prima che il sole spunti?”
    “Peppe, io ti credo. Ma ci sono persone che dicono che tu abbia fatto male a Marta.”
    “Ma io non ho fatto niente!”
    “E io questo lo so! Sto dalla tua parte!” si affrettò a precisare il capitano, “Ma, vedi, se tu mi dicessi qualcosa di quando vi siete visti con Marta, io...”
    “Ma io alla signora Marta manco l'ho vista!”
    Il capitano sbuffò e fece cenno di no con la testa: “E no, Peppe... Così non andiamo da nessuna parte...”
    Dopo quella frase rimase in silenzio. Peppe, invece, abbassò lo sguardo concentrandosi sul suo sandalo sinistro; duro e macchiato di salsedine ma comodo.
    Non passarono dieci minuti che un ragazzo imberbe con un'uniforme fiammante entrò; il suo sguardo preoccupato diceva tutto.
    “Un'altra?” disse il capitano; uscì dalla stanza scagliando a Peppe un'occhiata truce.
    “Agata, la figlia dello Zù Ninni, capitano. Doveva tornare a casa per il desco e nessuno l'ha più vista.”

    ***


    Peppe alzò il bavero della camicia lurida e proseguì la sua strada e varcò la soglia della taverna.
    Tossì mentre decine di occhi lo seguivano.
    “Buonasera a tutti!” disse quasi indietreggiando. La risposta fu un paio di tirate su col naso e il tintinnar dei bicchieri che Egidio, il barista, stava allineando su un vecchio comò adattato a credenza.
    “Un bicchiere di Zibbibo” ordinò Peppe.
    Egidio fece mezzo giro attorno al tavolaccio che fungeva da bancone e gli si avvicinò.
    “Per te non c'è nulla” fece semplicemente.
    Peppe lo sovrastava per larghezza delle spalle e per altezza, ma la vicinanza degli avventori lo faceva sentire più forte.
    Il pescatore si guardò intorno; come poteva aver pensato che avrebbero fatto finta di nulla?
    “Vattene!” disse Egidio.
    “Ma come, vengo qui ogni sera e...”
    “E da questa sera no.”
    “Perché il capitano non l'arresta?” domandò qualcuno ad alta voce.
    Fu Edigio a rispondere: “Dice che ci vogliono che le prove non bastano. Al Viceré non ci piacciono le esecuzioni senza prove. Dice che il Signore non vuole!”
    “E al Signore ci piace che questo ammazzi povere ragazze?” disse la voce di poco prima.
    Ci fu un brusio.
    “Comunque, Peppe, vattene” disse Egidio indicandogli la porta. “Tra l'altro Zù Ninni ti sta cercando e io non voglio che ti trova qui”
    “E cosa vuole?” domandò Peppe.
    “Cosa vuole?” rispose Egidio incredulo, “Gli hai ammazzato la figlia! Vuole soddisfazione. E lui se ne fotte del capitano. Se ti trova ti sventra!”
    Peppe si voltò e uscì dalla taverna, il peso di una condanna a morte che gli gravava sulla testa.

    ***


    Mastro Antonio era immobile sull'orlo della scogliera, il pene floscio tra le dita e un fiotto di urina che precipitava giù irrorando un cespuglio rinsecchito.
    Singhiozzò e ruttò con discreta potenza.
    Non era ubriaco, giusto un po' brillo magari, ma ubriaco no; ci teneva a non tornare a casa barcollando e per questo si era limitato. Del resto quello era giorno di paga e prima di passare da sua moglie aveva deciso di divertirsi un po'.
    Strinse gli occhi quando scorse la macchia chiara che sembrava galleggiare appena sotto il pelo dell'acqua.
    “Cosa diavolo...” disse tirandosi dentro il pene. “Una donna?”
    Vide due seni, grossi, pallidi e invitanti. Uscì la lingua e si leccò le labbra.
    Sentì una voce poi, fece un passo in avanti e precipitò giù. La collana d'oro che portava al collo scomparse tra i flutti e non fu più ritrovata.
    Qualcosa di Mastro Antonio, invece, fu rinvenuto; un piede incastrato in una nassa.

    ***


    Tina raccolse l'ultima pesca e barcollando solo un po' si avviò verso casa. Dicevano che di giorno si poteva stare tranquilli: il sole scaccia i diavoli, era cosa nota.
    E, allora, perché sentiva di dover accelerare il passo? Perché nonostante il caldo afoso del primo pomeriggio aveva la pelle d'oca?
    Si assestò il cesto sul capo.
    Non conosceva bene né Giannina, né Marta e, una parte di lei era convinta che se fossero fuggite davvero. Ma Agata, no. Agata non poteva averlo fatto; si conoscevano da bambine ed era certa che le fosse accaduto qualcosa di brutto.
    Uno sciacquettio delle onde la fece voltare verso la scogliera.
    L'unica cosa che scorse fu un riflesso argenteo e un mulinello di schiuma che spariva nella corrente.
    Accelerò il passo cercando di raccogliere il filo dei pensieri ma non ci riuscì.
    Si voltò verso il mare e si fermò.
    “Cosa...” disse ad alta voce mentre quello che sembrava un pesce aveva, con un colpo di coda, alzato una colonna di spruzzi.
    “Devo dirlo ad Antonio” pensò. Il sorriso per il marito si trasformò in una smorfia di paura quando vide un tentacolo simile a quello di un calamaro strisciare dall'orlo della scogliera e afferrarla.
    Gridò ma nessuno la udì.

    ***


    Peppe era seduto sul letto, le mani sulle tempie, il petto nudo.
    Vieni...Vieniiii... Abbiamo tutto!
    “No!” gridò. Anche quella notte aveva provato a cacciarle: bere il sangue di una gallina nera sgozzata con la luna piena e bruciare il pelo di un cane morto non era servito a nulla.
    Il mal di testa gli impediva di riflettere trasformando la sua ragione in un'accozzaglia disordinata di pensieri.
    Se quella notte non avesse giaciuto con loro!
    No, piccolo, non piangere. Ci siamo noiiiii...
    Il pescatore alzò gli occhi, la voglia di possederle di nuovo gli stringeva i testicoli come una macina per le olive.
    “Non siete donne! Lasciatemi stare!” urlò.
    Siamo tue... Le tue donne! Ti desideriamoooo...
    Peppe scattò in piedi; un'erezione poderosa che gli tendeva il cavallo dei pantaloni sporchi.
    Sudore, dall'odore acre e penetrante, gli colava sulla schiena scottata dal sole.
    Si appese alla bottiglia di vino, poi asciugandosi la bocca con la mano si mosse verso la botola.

    ***


    Alla fine il capitano glielo aveva consegnato.
    Peppe era nudo, il volto tumefatto e i polsi giunti sopra la testa immobilizzati da una corda spessa. Era bastata quella e una carrucola per creare un perfetto attrezzo di tortura.
    “Lasciatemi! Non ho fatto niente!” Era già la terza volta che il suo corpo veniva lasciato cadere dal tetto del fienile.
    Le gambe, ormai ridotte a una massa tumefatta di ossa e sangue, si piegarono formando angoli impossibili.
    “Dov'è Tina?” urlò di nuovo Antonio; dietro di lui Zù Ninni e un altro di cui non ricordava il nome lo fissavano.
    “Non... non lo...so!” farfugliò Peppe, la faccia sfregiata dai lividi e dalle lacrime di disperazione.
    Fu quando vide il coltello che le sue pupille tremarono di una luce spenta.
    Antonio glielo puntò sull'occhio destro.
    “Comincerò da questo” disse avvinando il coltello alla cornea e tendendogli l'occhio) aperto con due dita. Il ragazzo si sorprese a non riconoscere la sua sua stessa voce.
    Peppe cercò di ritrarsi ma la corda spessa, le caviglie doloranti e le mani da pescatore di Zù Ninni e dell'altro glielo impedirono.
    “Poi passerò alle orecchie. Prima il destro e poi il sinistro” proseguì Antonio come se nulla fosse.
    Alla fine Peppe cedette e raccontò la sua storia ma non prima che il suo occhio destro ornasse la punta del coltello.

    ***


    Antonio entrò in casa; aveva corso come un matto quando, tra le lacrime e le farneticazione di una mente stravolta dal dolore aveva intuito ciò che era accaduto.
    La botola, spalancata, mostrava un buco nero e quadrato. Costringendo il suo corpo a non cedere all'odore di mare morto che lo attraversava come una lancia, si avventò in quel nulla senza una parola, senza un grido.
    “Le sirene! Sono state loro! Io non volevo!” aveva detto più di una volta Peppe terrorizzato dal metallo lucido del coltello.
    Scese la scala a pioli, quando i piedi toccarono il pavimento rischiò di scivolare. Abbassò lo sguardo e cercò di interpretare la massa limacciosa e scura che lo aveva accolto alla luce tenue della notte. Avrebbe dovuto portare una torcia o qualcosa di simile; non averlo fatto era stato un errore.
    Un suono simile a un rutto liquido rimbombò nella scatola di legno e terra che lo aveva catturato.
    “Tina!” gridò prima che la cosa lo afferrasse per la vita con una delle sue estremità.
    Riuscì a ferirla col suo coltello da esche, ma il fendente a cui aveva affidato tutta la sua forza e la sua vita strappò all'essere solo un grugnito.
    L'estremità gommosa strinse ancora di più sollevandolo come una boa su un' onda.
    “Tin...a...Dov...” fece un rantolo mentre le gambe presero a formicolargli.
    L'eco della sua implorazione si scontrò con lo schiocco della spina dorsale che si spezzava.

    ***


    Ancora una volta le notizie filarono veloci insinuandosi tra le case come lo Scirocco.
    Donne, bambini e uomini si erano alzati dai loro letti ed erano accorsi sulla spiaggia. Fissavano tutti casa di Peppe.
    Il primo a scorgere la massa buia che, in mulinelli leggeri, si inarcava da Punta San Vittorio verso il cielo, fu un ragazzino.
    “Cosa è quello?”
    Ci fu un mormorio e tutti si ritrovarono a fissare ipnotizzati il cielo striato di nero mentre prendeva a spirare un vento leggero misto a goccioline di pioggia. Qualcuno si fece il segno della croce.
    “Guardate!” disse qualcuno. Decine di teste si voltarono in direzione della casa Peppe.
    Videro il Male strisciare fuori dalla sua tana: una massa informe di seni, gambe femminili, corpi maschili, pesci e reti; cose e essere umani che si mischiavano in un collage immondo di sangue, squame e oggetti. L'essere uscì da un finestra e, come un enorme pezzo di argilla troppo umida, colò fino allo strapiombo; temporeggiò qualche istante. Poi si calò nell'acqua salata fruttando alcuni tentacoli che erano usciti come antenne di lumaca dalla massa informe. Quando toccò la superficie un suono acuto si sparse nel promontorio.
    Quando fu immerso dall'acqua affiorarono quattro esseri. I seni suggerivano una femminilità che non era più integra.
    Le quattro figure uscirono dall'acqua lasciando ognuno una scia di spruzzi.
    In molti, nonostante gli occhi chiusi e le preghiere che recitavano riconobbero Giannina, Marta, Agata e Tina tra i flutti.
    Metà donne e metà pesci.
    L'umanità unita alla bestialità con fili dorati brillanti nel buio. E a unirli era stato Peppe.
    In molti ebbero la sensazione che la massa informe si fosse proteso in avanti come a odorarle, beandosi della loro presenza; fu solo un istante poi l'essere si immerse completamente.
    “Portatemi con voi! Vi prego!” gridò Peppe in una maschera di sangue e dolore. Piangeva e sputacchiava, mentre, con deboli movimenti delle spalle, cercava di divincolarsi dalla stretta della folla.
    “Zitto!” urlò qualcuno riavendosi dal ribrezzo e dall'incredulità.
    “Vi preg” proseguì Peppe mentre gli strattoni aumentavano d'intensità.
    Tempo dopo, quando si parlò di quella sera, nessuno seppe dire chi era stato il primo, ma ne era bastata solo una perché la folla si muovesse all'unisono.
    “Accontentiamolo! Dateglielo!”
    Si sentì un “Sì!” seguito da un “Se lo merita! Diamolo in pasto al demonio e al suo esercito.”
    In due raccolsero Peppe e lo gettarono oltre la scogliera.
    La sirena che era stata Agata emise un grido e si avventò su di lui. Un bacio lascivo diventò un morso e i mugugni di piacere dell'uomo divennero grida di dolore.
    Una corrente irresistibile portò l'uomo verso la massa che, nel frattempo, era rimasto fermo ad attenderlo.
    “Vattene! Figlia del demonio!” gridò padre Gino brandendo un crocefisso e continuando a segnarsi come un forsennato; Agata era rimasta a fissare i popolani, la bocca sporca di sangue, i seni scoperti e la coda che schiaffeggiava l'acqua.
    Ci fu un gorgoglio poi l'essere che era stato Agata con un salto mortale all'indietro si immerse.
    Chista è mala razza” disse una vecchia quando l'abominio e le sue spose scomparvero dietro Punta San Vittorio.
    In molti annuirono ma fu solo Zù Ninni a parlare: “Sì, Donna Ina, mala razza.

    FINE

     
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