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Se vuoi rivedere tua moglie fatti trovare tra mezz’ora all’autogrill Selva Candida. Fabio guardò il display del suo cellulare ed ebbe un brivido. Rimase immobile, con lo sguardo fisso su quel messaggio, poi guardò l’orario: erano quasi le nove di sera. Cercò il numero di sua moglie nella rubrica e la chiamò. Si erano sentiti un paio d’ore prima, non appena era uscito dal lavoro, e lei l’aveva avvisato che avrebbe ritardato per finire l'inventario al negozio dei genitori, ma in quel momento doveva già essere sulla via del ritorno… uno squillo, due squilli, tre squilli… al settimo partì la segreteria telefonica. Fabio chiuse la comunicazione e si passò una mano sul volto. Sentì il cuore accelerare i battiti e compose il numero del negozio, con le mani che gli tremavano, ma anche lì scattò la voce registrata. Chiuse gli occhi preoccupato e rilesse il messaggio che nemmeno un minuto prima gli era arrivato da un numero sconosciuto. L’idea che potesse essere uno scherzo di cattivo gusto andò assottigliandosi, lasciando spazio a una sensazione di paura e panico. Il cellulare squillò facendolo trasalire. «Ecco, è lei», pensò rispondendo, «stava guidando e non l’ha sentito… io stesso le dico spesso di non usare il telefono quando è in macchina»… ma quando sentì una voce sconosciuta, cercò una sedia e si lasciò cadere. «Spero che tu sia già in macchina». Era una voce maschile, fredda e profonda, senza particolari cadenze che la rendessero riconoscibile. Fabio rimase un attimo in silenzio, sentendo la gola seccarsi, e un’immagine gli si presentò davanti agli occhi: l'auto di sua moglie abbandonata al lato di una strada con uno sportello aperto e la radio ancora in funzione. Per un attimo ebbe l’impressione di sentire perfino la musica trasmessa dall’emittente, poi rispose con un filo di voce: «Chi sei?» «Non deve interessarti sapere chi sono, fra mezz’ora alla stazione di servizio Pisana interna, o Anna morirà». Sentendo pronunciare il nome della moglie, Fabio fu percorso da un altro brivido. Improvvisamente sentì freddo, come se si fosse trovato in mezzo a una corrente d’aria. «Come faccio a sapere che è lì con te? Voglio parlare con lei». Dall’altra parte del telefono ci fu un fruscio, poi si sentì una voce femminile: «Ti prego, aiutami». Fabio si sentì morire, le forze sembrarono abbandonarlo, per un attimo rischiò di scivolare dalla sedia. La stanza gli girò attorno, fu costretto a chiudere gli occhi e a fare alcuni respiri profondi che sembrarono calmarlo. «D’accordo», biascicò, «arrivo subito, ma tu non farle del male». La telefonata si interruppe. Lui guardò inebetito il display del cellulare, mentre la sua mente andava alla deriva immaginando Anna legata e incappucciata in una grotta, in mezzo alla campagna. Appoggiò il telefono sul tavolo e si strinse la testa con tutte e due le mani. «Devo rimanere calmo», si disse, cercando di razionalizzare ogni pensiero. Lanciò un’occhiata al telefono e pensò se chiamare la polizia oppure no. Presentarsi all’appuntamento insieme agli agenti non sarebbe certo servito a salvare sua moglie, anzi. E poi perché il rapitore aveva scelto quell’autogrill? Era lì che la teneva prigioniera o era soltanto un luogo dove trattare la sua liberazione? Afferrò il cellulare e corse in camera da letto. Aprì l’armadio, prese una camicia e dei pantaloni, si vestì di corsa. Scese nel garage e saltò in macchina, sgommando verso il raccordo anulare. Aveva meno di un quarto d’ora. In dieci minuti, senza pensare troppo ai limiti di velocità, raggiunse l’autogrill e parcheggiò sotto una tettoia. C’erano pochissime altre auto e faceva freddo, l’aria era sferzata da una violenta tramontana. L’unica pompa di benzina illuminata era quella del self service, mentre un paio di faretti illuminavano l’ingresso al ristorante che, da quello che si vedeva lì fuori, doveva essere deserto. Fabio spense il motore e rimase qualche secondo con le mani strette sul volante, chiedendosi se non fosse un sogno. Chi diavolo poteva avercela così tanto con loro da rapire sua moglie? Non erano ricchi, conducevano una vita che definire tranquilla era riduttivo, cosa pensavano di ottenere da quel folle gesto? Batté le mani sul volante e scese dall’auto, dirigendosi dritto verso l’autogrill. Entrò e si guardò attorno, nella speranza di vedere qualcuno o qualcosa che potesse riportarlo da Anna, ma vide soltanto un paio di persone sedute a un tavolino in disparte e un ragazzo dietro alla cassa. Rimase fermo all’ingresso, guardandoli, ma nessuno di loro gli diede importanza: i due uomini chiacchieravano davanti a un paio di bicchieri di birra, mentre il ragazzo stava leggendo un libro. Il cellulare gli squillò in tasca e fu allora che il ragazzo alzò la testa e gli indirizzò un sorriso stentato. Lui lo ignorò e tirò fuori il telefono: era arrivato un messaggio. Si appartò in un angolo e premette alcuni tasti. Sul display partì un video di pochi secondi in cui si vedeva sua moglie legata a una sedia, il corpo bloccato da una corda che le scorreva intorno, sulla bocca un fazzoletto che le impediva di parlare. Attorno a lei c’era buio. Quando il videomessaggio terminò, Fabio si avvicinò a un tavolo e si mise seduto. Lo riguardò per due volte e il panico lo avvolse. Che doveva fare? Doveva chiamare la polizia? Doveva chiedere aiuto alle persone presenti nel ristorante? Ogni suo pensiero fu troncato dallo squillo del cellulare. Per poco non gli cadde di mano, ma alla fine riuscì a rispondere. «Ti è piaciuto il regalino?» «Chi sei?», ribatté lui. «Sono all’autogrill, adesso dimmi cosa vuoi per liberare mia moglie». «Calma, calma, abbiamo tutta la sera davanti a noi». «Che significa?» «Vedi la pianta sotto al televisore?», riprese il rapitore. Fabio si girò e vide un ficus Benjamina proprio sotto alla tv appesa al muro che stava trasmettendo una partita di calcio. «Sì». «Bene, sotto il vaso troverai qualcosa, valla a prendere». Lui si lanciò un’occhiata attorno e poi annuì. «Ok, vado subito». «Bravo, e non farti venire strane idee tipo chiamare la polizia». «Non ho chiamato nessuno», si affrettò a rispondere Fabio, «sono solo», ma la comunicazione si interruppe. Fece sparire il telefono nella tasca dei pantaloni e si avviò verso la pianta. Si accertò di passare inosservato e si chinò sul vaso. Da sotto fuoriusciva la punta di qualcosa, la tirò fuori con le dita e vide che era un portadocumenti trasparente. Lo aprì e si trovò davanti un’altra foto di sua moglie. Era sempre legata alla sedia, ma questa volta aveva una pistola puntata alla testa. Fabio trasalì e girò la foto, leggendo un ennesimo messaggio: Vai in bagno, lì troverai una chiave. Fabio si guardò attorno e rilesse il messaggio altre due volte, poi andò verso la toilette. Nel tragitto incrociò nuovamente lo sguardo del ragazzo dietro la cassa che stavolta si limitò a seguirlo per poi tornare alla sua lettura. Fabio aprì la porta del bagno degli uomini, non c’era nessuno. L’aria era pervasa dal profumo del disinfettante, i lavandini luccicavano, gli specchi brillavano, era la toilette pubblica più pulita che avesse mai visto nella sua vita. Cercò con lo sguardo la chiave, ma non la trovò. Rovistò sotto i lavandini e dentro il cestino della spazzatura, poi aprì uno a uno i bagni e finalmente la vide sopra la cassetta di uno scarico. La prese e si accorse che c’era appeso un cartoncino con un altro messaggio: Esci dal ristorante, vai al parcheggio, troverai una porta con sopra disegnato un grosso teschio, aprila con la chiave e scendi le scale, arrivato in fondo fermati e aspetta. E non rivolgere la parola a nessuno. Fabio si passò una mano sui capelli e lanciò un’occhiata a uno degli specchi del bagno: quasi non si riconobbe. Il suo volto solitamente abbronzato adesso era pallido ed emaciato, gli occhi azzurri sembravano essersi spenti divenendo di un colore indefinibile, i capelli neri arruffati e bagnati, le spalle curve come se fosse schiacciato da un peso insopportabile. Gocce di sudore gli scivolavano dalle tempie, sotto le ascelle erano apparse due grosse chiazze scure. Chi l’avesse visto, l’avrebbe scambiato per un tossico. Strinse la chiave e tornò fuori. Il ristorante era deserto, sia il ragazzo dietro al bancone che i clienti erano spariti. Per un attimo ebbe la certezza di essere rimasto chiuso dentro… quanto tempo era rimasto nella toilette? Si avviò verso l’ingresso, spostando gli occhi da una parte all’altra, timoroso di veder sbucare da un momento all’altro qualcuno da un angolo, ma quando arrivò alla porta e la spinse, sentì l’aria fredda investirlo. Tirò un sospiro di sollievo e raggiunse il parcheggio. Girò su se stesso alla ricerca della porta indicata nel messaggio, e alla fine la vide proprio davanti alla sua auto. Una coincidenza? Si lanciò un’occhiata alle spalle, giusto il tempo di avere la conferma che oltre a lui non c’era anima viva, e corse verso la macchina, chiedendosi per un attimo se a bordo ci fosse qualche oggetto che poteva essergli utile. Pensò al crick, ma scartò subito l’ipotesi, così alla fine arrivò alla porta e si fermò, con le mani che gli tremavano. Cercò di infilare la chiave nella serratura, riuscendoci soltanto dopo tre tentativi. Si ritrovò davanti a una rampa di scale illuminata da una fioca luce al neon. Si guardò di nuovo alle spalle e cominciò a scendere i gradini, trasalendo al rumore dei suoi stessi passi. Arrivato in fondo si accorse di essere in un parcheggio sotterraneo. Girò la testa e vide un furgoncino rosso posteggiato poco lontano, non sembravano esserci altre auto. Che sua moglie fosse prigioniera lì dentro? Fece due passi, ma si bloccò ricordando cosa c’era scritto sul messaggio: arrivato in fondo fermati e aspetta. Si morse il labbro e sentì il sapore del sangue riempirgli la bocca. Avrebbe voluto correre ad aprire quel furgone, ma non fece un passo, aspettando un segnale dal rapitore. Arrivò pochi secondi dopo. Il cellulare squillò. «Sono nel parcheggio», esclamò Fabio. «Bravo, ti stai comportando bene, fra poco la caccia al tesoro sarà finita e potrai aprire il forziere. Adesso vai verso il furgone, lì saprai quale sarà il prossimo passo». La comunicazione terminò e Fabio fece sparire nuovamente il telefono nella tasca della giacca. Si avviò e quando raggiunse il furgone vide subito un’altra fotografia sistemata sotto uno dei tergicristalli. Allungò la mano e la prese. Era un primo piano di sua moglie da cui poteva vedere le lacrime che le bagnavano gli occhi. Girò la foto e lesse il messaggio: Dentro al furgone c’è la chiave appesa, metti in moto e vai nel retro dell’autogrill. Lì vedrai alcuni cassonetti della spazzatura, raggiungili e aspetta. Dopo aver dato un’ultima occhiata alla foto e sentendosi colpevole per la sofferenza di sua moglie, la sistemò nella tasca della giacca e aprì lo sportello del furgone. Si mise seduto e vide la chiave pendere dal cruscotto. La girò e il parcheggio si riempì del rumore singhiozzante del motore. Accese le luci e partì. Che senso aveva quella caccia al tesoro, come l’aveva chiamata il rapitore? Perché gli stava facendo fare tutti quei giri attorno all’autogrill? Era un modo per prendere tempo? O per godersi la loro sofferenza? E perché ancora non aveva fatto nessuna richiesta di riscatto? Rabbrividì, incapace di trovare un filo logico a quegli avvenimenti. Quando uscì all’aperto rallentò e si guardò ancora una volta attorno: le macchine continuavano a sfrecciare lungo il raccordo, ma nessuna si fermava in quella stazione di servizio. Girò attorno all’edificio e vide subito i cassonetti indicati sul messaggio. Avanzò ancora un po’ e si fermò. Spense il motore e saltò giù. Fece qualche passo e vide sbucare dal buio un topo grosso quasi quanto un gatto. L’animale si fermò a mezza strada e sembrò guardarlo con disprezzo, mentre la sua lunga coda si muoveva quasi fosse una frusta. Fabio indietreggiò, terrorizzato, ma l’animale lo ignorò zampettando via verso la campagna circostante. Lui si mise le mani sui fianchi e respirò a fondo. Aveva sempre avuto una fobia per i roditori, di qualunque tipo, e ancora di più per i topi di fogna. Quei loro occhi neri gli incutevano terrore, la loro lunga coda sembrava poterlo avvolgere fino a strozzarlo. Fece un altro passo, timido e timoroso di avere qualche altro incontro ravvicinato con una di quelle bestiacce. Il cellulare squillò ancora una volta. Fabio si fermò e lo tirò fuori dalla tasca della giacca, era una videochiamata. Si affrettò a rispondere. Quando l’immagine comparve sul display del telefono vide un uomo con un passamontagna. «Fino a ora sei stato molto bravo», gli disse il rapitore. «Adesso ci siamo quasi, campione». «Dov’è mia moglie? Voglio vederla!» L’uomo dall’altro capo del cellulare spostò lo schermo e inquadrò la donna legata alla sedia. «Stai bene?», gridò Fabio. «Ti ha fatto del male?» La moglie scosse la testa. «Che vuoi? Perché mi stai facendo girare così a vuoto? Che devo fare ancora?» Lo schermo del telefono si spostò e tornò a inquadrare l’uomo incappucciato. «È il momento dell’ultima prova, la più difficile». Fabio sentì un brivido lungo la schiena. «Dietro a uno dei cassonetti troverai qualcosa», riprese l’uomo. «Una chiave con cui aprire la porta che vedi in cima alle scale. Superata quella, potrai riabbracciare tua moglie». Fabio alzò gli occhi e vide la scala antincendio, in cima una porta chiusa. «D’accordo», rispose. L’uomo lo salutò con una mano e la telefonata fu interrotta. Fabio si guardò ancora una volta attorno, poi girò dietro ai cassonetti, ma quando vide dove era la chiave, sentì le gambe piantarsi e il fiato venirgli meno. Poco lontano, legato a uno dei cassonetti con un fil di ferro, c’era un ratto ancora più grosso di quello che aveva visto prima, appesa al suo collo dondolava una chiave. Rimase fermo, in apnea, per un tempo che non seppe calcolare, alla fine si scosse e si passò una mano sui capelli, sconvolto. Il ratto, non appena lo vide, squittì e provò a muoversi, ma rimase ancorato alla trappola. Fabio lo fissò, chiedendosi come diavolo avrebbe fatto a prendere quella chiave. Si guardò attorno alla ricerca di qualcosa che potesse essergli utile, ma non trovò niente. Fece un passo verso il roditore, ma subito dopo tornò indietro, incapace di prendere una decisione. Cercò di calmarsi e ripensò ad Anna: quella sarebbe stata l’ultima prova, aveva detto il rapitore, poi l’avrebbe potuta riabbracciare. Sentì il coraggio tornare e afferrò un paio di pagine di un giornale da un cassonetto. Si coprì le mani e avanzò verso il ratto. L’animale squittì ancora una volta e sembrò puntargli gli occhi addosso. «Chissà da quanto tempo è legato qui», pensò Fabio tornando a pentirsi della sua decisione. «Chissà da quanto non mangia», gli fece eco la sua stessa mente. «I topi portano malattie», risentì la voce di sua madre. Deglutì un paio di volte, sentendo la gola come carta vetrata, e continuò ad avvicinarsi. L’animale sembrava agitato, girava su se stesso e continuava a tirare nel tentativo di liberarsi dal fil di ferro che all’altezza del collo gli aveva provocato anche una piccola ferita. Fabio lo guardò negli occhi e lui allungò il muso come a voler annusare l’aria. Improvvisamente un’idea lo fulminò. Si bloccò e tornò indietro, giunto all'altezza di un cassonetto cominciò a rovistarci dentro fino a quando non trovò un involucro con del cibo avanzato. Tolse la carta e lo porse verso il ratto che immediatamente prese a muoversi in maniera convulsa. Chinandosi, allungando un braccio, lo lasciò proprio a due passi dal muso della bestia che vi si gettò su. Stando bene attento, Fabio raggiunse il cassonetto. Il fil di ferro era tutto attorcigliato, lo sbrogliò senza troppi problemi e lo fece passare attorno alla testa del ratto, poi prese la chiave. La tirò a sé e corse via, allontanandosi da quel principe delle fogne che sembrava non essersi accorto di nulla. Cercò con lo sguardo la scala e salì i gradini a due a due. Arrivato alla porta si bloccò e temette che quella chiave non sarebbe servita a niente. Allungò la mano e la infilò nella serratura, girò e sentì il clic di apertura. Sbuffò e sbirciò dentro: era in un corridoio lungo il quale si allungavano alcune stanze chiuse, da un lato e dall’altro. Qual era quella in cui era tenuta prigioniera sua moglie? Fece qualche passo e si accorse che sull’ultima porta a sinistra era stato appeso qualcosa. La raggiunse e riconobbe la collana di Anna. La prese e la tenne stretta tra le mani, poi afferrò la maniglia e aprì… Si ritrovò in una stanza buia e fredda. Fu percorso da un brivido e vide alla sua destra svolazzare una tenda, poi, quando gli occhi si abituarono alla penombra, riuscì a vedere meglio le forme attorno e si accorse di un’ombra di fronte a lui che si muoveva in maniera convulsa. Strinse ancora la collana e corse verso la moglie ancora legata alla sedia. Le tolse subito il fazzoletto dalla bocca. «Stai bene?» Lei buttò fuori l’aria dai polmoni e respirò. «Stai bene?», ripeté Fabio. La donna alzò la testa e lo guardò. «È ancora qui», riuscì a biascicare. Fabio non ebbe il tempo di realizzare che una mano calò dal buio sulla sua testa, colpendolo col calcio di una pistola. Quando l'uomo riaprì gli occhi, provò a muoversi, ma sentì subito le braccia immobilizzate dietro lo schienale di una sedia. Piano piano attorno a lui le cose presero forma, e quando si voltò vide sua moglie accanto a lui, ancora legata, ma senza più il bavaglio. Teneva la testa bassa e aveva gli occhi chiusi. Per un attimo Fabio fu certo che fosse morta, ma poi vide il suo torace alzarsi e abbassarsi ritmicamente: si era addormentata. Quanto tempo era rimasto privo di sensi? Provò a guardare fuori, ma vide sempre buio. Erano in un ufficio, attorno a loro c’erano alcune scrivanie con sopra dei pc e sommerse da pile di documenti. Girò la testa e vide la tenda di una finestra gonfiarsi spinta dal vento freddo, era la stessa che aveva visto quando era entrato. Alle pareti c’erano degli schedari e qualche quadro di arte moderna. Sul soffitto due grandi lampade al neon, erano gli uffici di chi gestiva l’autogrill. Cercò di liberarsi, ma si procurò soltanto delle dolorose fitte ai polsi. Anche le caviglie erano immobilizzate, strette con del nastro adesivo. Tornò a guardarsi attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse usare per liberarsi, ma non c’era niente per metri. Avrebbe dovuto buttarsi a terra e provare a trascinarsi con la sedia, sperando poi di riuscire a prendere qualcosa con la bocca, magari un tagliacarte. Provò a muoversi, ma fu interrotto dal rumore della porta della stanza che si aprì. Alzò la testa e vide ricomparire l’uomo col passamontagna che aveva visto nel video sul cellulare. Era alto circa un metro e ottanta, spalle larghe, fisico muscoloso da assiduo frequentatore di palestre. Indossava dei jeans e una maglia di lana attillata, tutti e due neri, ai piedi un paio di scarponcini da trekking. Le mani erano coperte da dei guanti anch’essi neri. «Vedo che hai ripreso i sensi», esclamò. Fabio lo guardò, cercando di capire chi potesse nascondersi dietro il passamontagna, ma non riuscì neppure a riconoscere la voce. Accanto a lui, la moglie aprì gli occhi e si guardò attorno disorientata. Quando si accorse che anche il marito era legato, gemette e sospirò rassegnata. «Come stai?», le chiese Fabio. Lei lo guardò e alcune lacrime le scivolarono sul viso sporco di trucco. Gli occhi color mandorla erano gonfi e arrossati, i capelli biondi le cadevano sulle spalle in modo disordinato dandole un'aria trascurata. «Mi dispiace», mormorò senza guardarlo negli occhi, «ti prego, perdonami…» Fabio la fissò senza capire, intanto il rapitore si era fatto più vicino e sembrava godersi la scena. La donna scosse la testa e cominciò a singhiozzare. Fabio si voltò verso il rapitore. «Chi sei?» Lui non rispose. «Perché ci tieni prigionieri? Che vuoi? Soldi? Se ci lasci andare, vedrò di raccoglierne quanto posso. Non siamo ricchi, ma posso rivolgermi ad alcuni amici…» Nella stanza risuonò una risata sguaiata. «Sei patetico», disse infine il rapitore. «Adesso capisco perché tua moglie ti tradiva». La donna gemette e tornò a singhiozzare tenendo sempre la testa bassa, proteggendosi il viso coi lunghi capelli biondi. Fabio si girò verso di lei, poi tornò a guardare l’uomo che aveva davanti. «Che cosa significa?» «Svegliati, coglione!», gli diede un buffetto sulla testa. «Tua moglie non è la donna che tu credi che sia. Ti ha mai detto quanto le piace essere inculata? O prenderlo in bocca? Magari è una di quelle donne che al maritino il culo non lo fanno neanche vedere, ma che poi scoprono quanto sia bello con l’amante», la risata risuonò ancora nelle loro orecchie. Poi l’uomo tornò serio e tirò fuori dalla cintola dei pantaloni una pistola. «Ma adesso la puttana si è pentita e ha deciso di tornare a casa…», le si avvicinò e le puntò l’arma alla testa. Fabio sgranò gli occhi. «Non farle del male». L’uomo lo guardò e alzò la pistola. «Sei patetico», ripeté con disprezzo. «Neanche adesso che hai saputo che se la spassava con me, riesci a tirare fuori le palle», spostò l’arma contro di lui. «Ti è piaciuta la caccia al tesoro?», scoppiò a ridere e indicò un monitor appeso alla parete sopra la porta. Lo schermo era diviso in vari quadratini da cui si poteva controllare praticamente tutta l’area intorno e dentro l’autogrill. «Sei stato bravo, con quel ratto non credevo ce l’avresti fatta, ma adesso il momento del gioco è finito, è ora che tua moglie ti mostri di cosa è capace». Fabio deglutì a vuoto e sentì un disperato bisogno di bere. «Adesso la nostra cara Anna ti farà vedere quanto è brava», si slacciò i pantaloni. «Ma che cosa…», protestò Fabio. Il rapitore gli poggiò la pistola sulla fronte: «Un’altra parola e ti faccio saltare la testa». Fabio abbassò gli occhi e lo vide mentre si lasciava cadere i pantaloni. Il rapitore si calò le mutande, mostrando il pene eretto, e si avvicinò alla donna, prendendola per i capelli e costringendola ad alzare la testa. Fabio la guardò: aveva il viso rigato dalle lacrime e tremava come una foglia. Avrebbe voluto mettersi a urlare, ma il freddo contatto con la pistola lo fece rabbrividire. Cercò ancora una volta di liberarsi, ma non riuscì neppure ad allentare la stretta. «Avanti, puttana, fai vedere a tuo marito come sei brava», il rapitore le spinse il pene contro la bocca. Lei serrò le labbra e gemette disperata. «Apri quella cazzo di bocca, sennò lo ammazzo come un cane», fece una leggera pressione sul grilletto. La donna singhiozzò e aprì le labbra. L’uomo le infilò il pene dentro e con la mano libera cominciò a spingerle la testa verso di sè. «Ora fammi venire, sgualdrina». Fabio sentì la testa girargli, si mosse, ma l’uomo lo fulminò con un’occhiata e gli schiacciò la canna della pistola ancora più a fondo, fino a lasciargli un livido sulla fronte. A quel punto Fabio chiuse gli occhi, deciso a non assistere a quell’oscenità, ma senza riuscire a fermare le lacrime che in un attimo gli bagnarono il volto. Rimase con le palpebre serrate, trasalendo a ogni mugolio di piacere dell’uomo che quando raggiunse l’orgasmo si lasciò andare a un urlo liberatorio, svuotandosi dentro la bocca della donna. Fu in quel momento che Fabio sentì la pistola allontanarsi dalla sua testa, così aprì gli occhi e si lanciò contro il loro aguzzino senza pensarci. Lo schienale della sedia cedette di schianto e la stretta del nastro adesivo si allentò. Fabio tirò con tutte le sue forze e riuscì a liberarsi le mani, mentre il rapitore scivolò nei suoi stessi pantaloni e perse l’equilibrio, finendo per terra. La pistola gli volò via e Fabio ne approfittò per buttarsi addosso al suo avversario, colpendolo al viso con i pugni chiusi. Sentì un’ondata di odio e non si fermò fino a quando si accorse di avere le mani rosse di sangue. Allora si bloccò e prese un respiro, accorgendosi che attorno alla testa del rapitore si era formata una grande chiazza scura cosparsa di materia cerebrale. Per un attimo non riuscì a credere di essere stato lui a ridurlo in quel modo. Rimase fermo, sentendo l’adrenalina scorrergli ancora nelle vene, poi si voltò verso la moglie. Era immobile, occhi sbarrati e bocca ancora sporca di sperma. Fabio si liberò le caviglie e poi si ripulì come poteva. Si chinò sull’uomo e gli tolse il passamontagna. Non lo aveva mai visto, non aveva idea di chi fosse. Gli poggiò due dita sul collo e si accertò che fosse morto. Rovistò nei suoi vestiti e recuperò il suo cellulare. Lo fece sparire nella tasca dei pantaloni e si avvicinò alla moglie. «Stai bene?» Lei lo guardò continuando a piangere. Fabio tirò fuori un fazzoletto e le ripulì il viso. «Adesso va meglio», abbozzò un sorriso. Le slegò i polsi e poi le caviglie. «Fabio…» «Shhh», la bloccò lui. L’aiutò ad alzarsi. «Andiamo a casa». La donna lo guardò e accennò un sorriso. Si sistemò i capelli e si avviò verso la porta. Fabio rimase fermo, osservandola, poi voltò la testa e guardò la pistola a pochi passi da lui. Si chinò e la raccolse. La puntò contro sua moglie e sparò un colpo. Dalla testa della donna partì uno schizzo di sangue che sporcò la parete accanto alla porta. Il corpo fu scosso da alcune convulsione e poi si accasciò sul pavimento, scomposto come una marionetta senza fili.
Edited by margaca - 15/10/2011, 12:23
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