|
|
1. Due righe sul perché l’ho fatto. Sulla questione c’è poco da aggiungere, ormai vi avrò ammorbato abbastanza. Magari, però, c’è qualcuno che ancora non mi conosce. Ero intossicata dall’Amore. Il veleno di lei circolava nel mio sangue, il desiderio tornava a galla dal fondo dell’oceano della mente proprio quando pensavo di aver ovviato al problema. Dovevo stare sola. Avessi avuto la possibilità, sarei partita per la Patagonia, l’Antartide, l’Islanda, uno di questi posti, fate un po’ voi. La solitudine, la serenità, potersi ricostruire l’anima. Di questo avevo bisogno. Metteteci il tempo a disposizione, il mio nome aggiunto alla lista dei nuovi disoccupati (evviva!), l’esame imminente di topologia da sostenere e la mia eccentricità di natura. Le motivazioni vi siano sufficienti.
2. Del come sono venuta a conoscenza dell’esistenza di questo luogo strano dove sono stata e che chiamerò semplicemente “La Baita”, dell’esatta sua ubicazione, e delle contrattazioni per l’affitto, quasi simbolico, nonché degli escamotage per passarvi del tempo da sola senza destare strani sospetti vi risparmio i dettagli. Sono indulgente. Diciamo, per non lasciarvi proprio a bocca asciutta, che ho una rete di conoscenze piuttosto vasta nonostante i miei ventiquattro anni: è uno dei miei vanti e dei miei crucci. Diciamo poi che la Baita si potrebbe trovare nel reatino profondo, a più di mille metri d’altezza, immersa nei boschi, vicina al confine di ben tre regioni. Diciamo che ai miei ho fatto intendere che sarei andata in Toscana, ospite di un’amica, e che loro, conoscendo come sono fatta, geniale ma pigra, lenta ma efficiente, non si sono chiesti come potessi conciliare lo studio per l’esame imminente con una vacanza. In fondo erano già intimamente soddisfatti che avessi perso il lavoro e che presto sarei dovuta tornare all’ovile per mancanza di fondi, ovvero nella mia camera prigione, piena ancora così di pupazzi di peluche che fanno tanto “figlia unica ancora bambina”. Anche questo vi basti. Il dieci settembre di mattina, sabato, sono partita, un chilo di fogli così, stampati con Google Maps sul sedile del passeggero e tutto l’occorrente nel bagagliaio. Il dieci di settembre all’ora di pranzo sono arrivata. Due ore e un quarto di auto. Sul BlackBerry neanche una tacca. Ottimo. Sull’orologio, mezzogiorno e qualcosa. Ero lì. Sola. E lo sarei stata per dieci giorni. Proprio quello che cercavo. Davvero?
3. Ancora un flash back, prima di arrivare al sodo. Poche righe. Il proprietario della Baita vive a Roma, mi conosce “superficialmente bene”, è un tipo strano ma corretto negli accordi, forse segretamente invaghito di me. Ovviamente gli ho detto che non sarei andata lì da sola, non sono ancora stupida fino a questo punto. Gli ho detto bensì che sarei andata lì col mio ragazzo, Enrico (mi sono inventata anche il nome), appassionato come me di trekking e desideroso di vedere da vicino le rare aquile reali. Il proprietario è troppo fuori dal mio abituale “giro” per avere dei dubbi sulla sua eventuale esistenza. Per cui, lanciando la balla, sono rimasta abbastanza tranquilla della sua efficacia. Mentre gli accennavo del progetto, ho letto inoltre nella sua mente un pensiero impuro: due giovani ragazzi che trovano il modo per fare l’esperienza del sesso selvaggio nei boschi, all’aperto. Credibile, peccato non parteciparvi. L’aria della poco di buono ce l’ho sempre avuta, gli occhi e la bocca anche. Gli è bastato, nessun sospetto. Quando mi ci metto, del resto, so dire cazzate come poche.
4. Una volta... (concedetemi anche questa digressione va, lo so che mi costerà almeno due punti ma, come sapete, non scrivo per vincere i concorsi), oops, ho perso il filo! Dove ero rimasta? Ah! Sempre ‘sto tizio, dicevo, mi aveva proposto di fare l’entreneuse in un Night Club di Roma. Roba seria, niente sesso, ci aveva tenuto a precisare. Solo far compagnia ai clienti, magari mostrare un po’ gambe e culo. Il seno non lo nominò, non a caso non è il mio pezzo forte. E poi ridere, ridere, ridere e ridere. Neanche quello è il mio pezzo forte ma questo, lui, non poteva saperlo. Mi disse la cifra e fischiai come in un film. Non era poco, stavo quasi sul punto di accettare. Se ripiegai, non fu certo per questioni etiche. Fu per pigrizia. Ecco, questo vi dia un po’ l’idea della mia testa matta. Siete ancora sorpresi che abbia scelto di fare un’esperienza simile? Torniamo alla Baita, che è il succo della storia, va! Ce n’è da dire!
5. Posteggiai l’auto in uno spiazzo alla fine di una strada sterrata e cieca, lunga tre chilometri e piena così di buche. Sembrava che il fondo fosse molto duro e reggesse bene alla pressione delle ruote, forse anche di fronte un eventuale acquazzone di fine estate. Le previsioni del tempo comunque non accennavano a nubifragi, ma si sa, quella era la montagna. Certo, ne fosse arrivato uno di quelli brevi ma tosti, avrei dovuto svignarmela in tutta fretta per non restare impantanata lì per un mese. Strinsi le mani forte sul volante, mi morsi un labbro e pensai. E chi l’avrebbe sentita poi mia madre? Mandare il carro attrezzi per tirare fuori dal fango l’auto? “E che ci facevi là? Con chi eri? Anata wa baka desu ka?” Mi avrebbe assalito certamente attaccandomi in giapponese facendomi sentire una puttana, come fa di solito quando s’incazza con me. Sa farlo proprio bene, in questo senso è l’unica persona al mondo capace di mettermi realmente a disagio. Per cui ebbi la tentazione di mollare l’impresa. Ma io sono sempre stata temeraria. Mi feci coraggio e decisi di proseguire, incrociando le dita. Scesi dalla macchina e mi guardai attorno. L’ultimo pezzo, di seicento metri circa, dalle carte e dalla descrizione del proprietario, doveva essere una sorta di mulattiera, più che altro un sentiero di montagna, non ripido ma con pendenza persistente. Niente d’impossibile da affrontare. Mi accesi così una sigaretta. E lì accadde. Un deja vù. Un deja vù fortissimo, come non avevo mai provato in vita mia. - Io sono già stata qui, - Mi dissi. Come? Dove? Dove ho visto questo posto? Vi è mai capitato di fare dei sogni, all’interno dei quali ricordate episodi vissuti in altri sogni? Non sapere se il ricordo specifico vi è accaduto realmente oppure no? Ecco, era cosa del genere, ma molto potente. Forse era solo un banale deja vù. Forse. Ma la solitudine e la bellezza del posto amplificarono quella sensazione fino al mancamento. Dovetti sedermi al cofano per non cadere. - Cominciamo bene, - pensai. Dopo essermi ripresa da quell’attimo di sconcerto, mi feci forza, chiusi a chiave l’auto, caricai nello zaino quanta più roba potevo portarmi per il primo giorno: due bottiglie d’acqua, il necessaire (di cosa sia ve ne parlerò dopo), sacco a pelo, i libri, un po’ di viveri, una sportina di frutta fresca e via. Affrontai la mulattiera con la camicetta a scacchi slacciata, occhiali da sole, berretto, jeans short aderenti, scarpe da montagna con calzini fucsia, tirati su fino al polpaccio. Mi chiesi che aspetto avessi vista da fuori. Nonostante sia una ragazza forte, allenata, e senza un filo di grasso, ho fatto una fatica boia. Venti chili sulle spalle in salita, più di un terzo del mio peso, non sono uno scherzo. Mi sentivo come una formichina che trascinava il suo chiccone di grano alla sua tana. Dovetti fermarmi spesso, andare lenta. Ma del resto nessuno mi correva dietro. Quello era lo sballo di quella vacanza. Nessuna fretta. E a destra e sinistra del sentiero, nelle diverse pause, potevo ammirare un bosco selvaggio, scuro e ombroso anche a mezzogiorno. Da mettere paura. Già, da mettere paura. E quella sensazione di già visto non era ancora completamente passata. Neanche per niente.
6. Arrivai in cima. Appoggiai lo zaino a terra e mi ripresi dal fiatone. Ero sudata fradicia, morivo di sete. Eppure, ancora quella familiarità con posti mai visti prima non accennò a svanire, specie quando fissai per la prima volta la Baita. Era una costruzione semplice, un parallelepipedo bianco sporco di otto metri per tre per tre, una cosa così. Due finestre, la porta, un gradino. Minimalismo allo stato puro. Si adagiava su un piccolo spiazzo semisterrato, coperto a tratti da felci, proprio alle pendici di una montagnola che saliva lentamente per una ventina di metri per poi andare su ripida come un dirupo all’incontrario. Con un po’ di fantasia questo spiazzo poteva essere considerato il suo giardino. Il sole, invece, illuminava l’edificio solo a mezzogiorno o giù di lì, proprio come in quel momento. Dall’altro lato, infatti, c’era un’alta montagna, bellissima, che lo nascondeva per il resto della giornata. Accanto alla Baita c’era un banale gabbiotto con una porta verde, che conteneva l’autoclave del pozzo. Il proprietario mi aveva dato un mazzo di chiavi, cinque o sei, un paio delle quali completamente arrugginite, con etichette consunte e illeggibili. - Le chiavi sono due tra queste, non ricordo mai quali. - Disse. - A volte le porte non si aprono subito e bisogna forzare. Vedete un po’ voi. Non mi fate stare in pena. Gli risposi di star tranquillo. Il mio ragazzo, Enrico, sapeva aprire ogni cosa. Mi acciaccai la lingua perché detta così, quella frase poteva essere una metafora sessuale dal dubbio gusto. In realtà l’avevo buttata lì senza malizia. Lui, comunque, non ci fece caso. Si raccomandò solo di spurgare l’autoclave una volta andati via perché d’inverno l’acqua, ghiacciando, avrebbe spaccato i tubi e poi li avremmo dovuti ripagare. Mi spiegò la procedura tre volte. E va bene, farò così, risposi, promesso. Invece, trovai le porte aperte. Entrambe. Cacchio, cacchio, pensai. Il primo mistero!
7. Dentro la Baita era sì pieno di polvere, l’aria sapeva sì di muschio, ma sembrava che qualcuno avesse spazzato il pavimento di recente. Un tavolo, tre sedie, un armadio, diverse pentole, due o tre piatti, un fornellino a gas dotato di bombola, svariati oggetti da caccia, cartucciere eccetera, un lavandino, uno scopettone, un lungo tubo di gomma verde. Poco altro. Nel gabbiotto verde c’era, come ho detto in precedenza, l’autoclave del pozzo, collegata a un piccolo generatore portatile a benzina. Ci misi un po’ ad accenderlo ma funzionava bene. L’acqua uscì regolarmente dal lavandino al primo colpo. Strano, pensai. Ma il boss si raccomanda a me, pure tre volte, di spurgare l’acqua dai tubi e si dimentica di farlo quando viene qua lui? Scossi la testa e ignorai il problema. Il generatore faceva comunque un rumore d’inferno, per cui decisi che l’avrei acceso solo quando mi sarebbe servita l’acqua. Ah, dimenticavo: avrebbe dovuto fornire l’energia elettrica anche all’unica lampadina esistente. Ma pareva fulminata. Comunque di quel problema non avevo timore. Avevo con me diverse lampade da campeggio. Inoltre ce n’era una a olio sul mobile che sembrava essere uscita da un museo. E pareva fosse ancora mezza piena. La presi in mano. Curioso, pensai. Qualcuno doveva aver fatto la stessa cosa relativamente di recente. C’era l’impronta lasciata dalla polvere poco di lato. Ma anche a quell’indizio non prestai attenzione. Tutto qui, o quasi. Mangiai i panini al prosciutto che mi ero portata dietro, non mi andava di cucinare e non avevo troppa fame. Bevetti molta acqua. Completai la pulizia, anche se non ci impiegai molto. Niente insetti molesti né topi, quelli proprio non li avrei sopportati. Meglio i serpenti, dovendo scegliere. Feci comunque una breve ispezione nell’intorno della Baita. C’era un luogo, deputato ai bisogni, una specie di cesso all’aperto che mi fece scappare una risata. Chi l’avrebbe mai usato? Ne scelsi uno appropriato, un po’ appartato. Si sa, per certe cose bisogna essere appartati anche quando si è soli. Va che roba, anche lì qualcuno, e di recente, pareva già averci pensato! C’era una buca che sembrava addirittura essere stata appena ricoperta. O no? C’era perfino una pala, appoggiata a un albero. Beh, riflettei. Quel posto sembrava più affollato di quel che appariva. Era evidente che qualcuno aveva alloggiato alla Baita prima di me, in tempi neanche troppo remoti. Evidentemente non ero stata io, la sola, ad aver avuto l’idea di volervi soggiornare. Strano però che il proprietario non me ne avesse parlato. Non era impossibile che la stessa Baita fosse utilizzata allora come alloggio clandestino da chi lo sa chi, magari cacciatori di frodo. Oppure? Sono pigra di natura, ero venuta lì non per indagare ma per rilassarmi. Per cui dissi: - ‘sti cazzi. Ne approfittai per far pipì. Il posto comunque m’ispirava. Mi feci poi una breve doccia a cielo aperto collegando il tubo al lavandino, sperando non ci fossero guardoni con il cannocchiale a spiarmi. Non usai sciampo o altro. Avevo cumuli così di sacchetti igienici per gli assorbenti usati, salviettine eccetera. Non avrei lasciato lì rifiuti di alcun tipo eccetto i miei bisogni. Rispetto e amo la natura più di me stessa.
8. Esausta, mi riposai per un paio d’ore dopo aver steso il sacco a pelo all’interno. Lessi per un po’: quel certo capitolo di “Kafka sulla spiaggia” di Murakami Haruki e la storia di Christopher McCandless romanzata da Jon Krakauer che aveva ispirato il film di Sean Penn “Into the wild”. Non ero poi così originale in fondo. Ma da fuori si sentivano i cinguettii di uccelli liberi e altri suoni strani emessi da animali sconosciuti. Il rumore poi del vento tra gli alberi. Mi sentivo bene, rilassata. Il tavolo era proprio nel posto giusto, il più luminoso della stanza, come se qualcuno ce lo avesse messo apposta. Ci schiaffai su i libri di topologia e presi a studiare. Passai ore e ore immersa nello studio. Dimostrazioni e congetture. I concetti più difficili mi apparivano semplici, chiari, le dimostrazioni lineari, ero in uno stato di trance da studio, senza distrazioni, senza telefonino o internet. Sublime. Studiai così bene che m’interruppi solo quando mi accorsi che la luce non era più sufficiente. Allora accesi il fornelletto, buttai l’acqua e mi preparai un po’ di pasta per la cena, sugo al ragù in conserva, poco olio, frutta e acqua minerale. Ero felice e serena. Rilassata. Ma poi venne il crepuscolo. Un classico.
9. C’è chi odia il giorno. C’è chi teme la notte. La luce è irritante. Il buio fa paura. Io non temo né l’uno né l’altra. Il problema per me è a metà. Sono terrorizzata dal crepuscolo. Persino l’alba, a volte, mi mette angoscia. Ma quei quindici minuti dopo il tramonto, oh! Quelli proprio non li sopporto. Non è il buio che terrorizza, vedete, è l’attesa di esso. Il crepuscolo è il punto di giunzione tra due mondi. A volte, specie in inverno, ho notato che le pareti assumono una colorazione bluastra, malsana, oserei dire, idrofobica. Ecco, questo è il colore giusto. Un blu idrofobico. Gli oggetti si modificano. Da familiari assumono un’aria estranea, a volte inquietante, a volte minacciosa. Il buio, in fondo, è morto, è un’assenza, è un concetto. Il crepuscolo invece è un mondo a parte, mobile, mai piacevole. Vivo. Il crepuscolo, credetemi, fa più paura del buio. Per lo meno a me.
10. M’inquietai, dunque, e cominciai a innervosirmi. Sapevo a cosa sarei andata incontro. Una notte, la prima di nove, da passare da sola, sperduta nel nulla. Era un’esperienza che volevo provare disperatamente. Prendete cento persone, qualsiasi. Sono convinta che solo quattro o cinque tra queste accetterebbero senza indugio di dormire da sole in un posto simile. Eppure io smaniavo di far parte di quel cinque per cento. Ovviamente sono considerazioni che si fanno alla luce del sole, per certi versi quasi infantili. Tutto sembra facile quando s’immagina la cosa a bocce ferme, in mezzo al traffico, in città, con qualcuno che smadonna ai semafori, dopo aver fatto l’amore o vedendo Gerry Scotti alla TV. Il problema è quando l’evento si verifica in corso d’opera. Infatti, quando le ombre si allungarono troppo e i suoni del giorno cominciarono a essere sostituiti da quelli della notte imminente, paventai l’idea di mollare tutto e andarmene. Mi venne una fifa tremenda. Magari trovarmi una pensioncina da qualche parte e tornare lì solo durante il giorno? No? Eh, Grazia? Presi in considerazione la possibilità. La Baita mi faceva paura, adesso. Molto. Sembrava opprimermi. Le pareti bluastre e idrofobiche contenevano i misteri del mondo e questi misteri non erano niente di buono. Cercai di rifugiarmi nella razionalità. Sigaretta dopo sigaretta, mi preparai per la notte. Mi chiusi dentro a chiave dopo aver provato l’integrità della serratura e ispezionato accuratamente l’interno e l’esterno. Sigillai le finestre con le persiane dopo aver acceso la lampada. C’era una specie di spioncino, notai, forse creato appositamente spaccando parte di una persiana, dal quale si poteva guardare fuori. Strano. Perché? Mah! Mi sembrava proprio di alloggiare dentro una tomba. Proprio così. Un bel Problema. Cercai di ridere a quell’idea e m’infilai dentro il sacco a pelo. Allungai la mano allo zaino e tirai fuori il necessaire, la Soluzione al Problema. Ora potevo spegnere la lampada. Vieni a me! La prima delle tre bottiglie di Johnnie Walker, Black Label. Vedete, non si possono portare intere casse di birra o ettolitri di vino in montagna. Occorre un concentrato. Il whisky è un’ottima soluzione. Occupa poco spazio, 40° e il fegato ringrazia. Dopo i primi sorsi e la testa che già mi girava, là al buio, pensai a quali erano stati gli eventi che mi avevano portato a essere così stramaledettamente dandy. Ero una zebra euroasiatica che beveva, fumava, andava in palestra, faceva sesso senza remore con uomini e donne senza mai aver avuto una relazione che fosse durata più di tre mesi, sinistrorsa, disoccupata, bisex tendente a lesbica, innamorata senza speranze della migliore amica, quasi laureata in matematica, aspirante scrittrice e, dulcis in fundo, pazzoide frequentatrice solitaria di baite in montagna. Un bel cocktail. Eppure, nonostante tutto quel casino, tutto quello smuovere le acque, nonostante quella ricerca spasmodica di esperienze nuove e di conoscenze, continuavo a essere infelice come una Pasqua. Cosa c’era di me che non andava? Piangevo e ridevo al tempo stesso, mentre i suoni della notte si facevano più insistenti. Invocavo Nostra Signora Regina del Suicidio, l’Imperatrice dei Collassi, il coma etilico, rimpiangevo le merende perdute di Moretti, le smagliature alle calze, scivolavo sull’assioma di Haussdorf ripercorrendo il gruppo fondamentale di spazi omotopicamente equivalenti. Citai al nulla, di fronte a me, che la vita era un oggetto dal volume nullo e dalla superficie infinita, un Tappeto di Sierpinsky. Come la mia anima. Il buio rispondeva a modo suo, con i rumori del mondo selvaggio. Alcuni di questi sembravano degli sciacquettii incoerenti, quasi degli stracci bagnati lanciati da una parte all’altra del bosco da folletti e da elfi (urgh!). Che cavolo erano? Se non fossi stata così brilla, sarei morta dalla paura. L’alcool etilico, in quel contesto, era il mio Spalman di Elio e le Storie Tese. Una volta fui quasi certa di sentire un rumore di passi, ma durò solo pochi istanti per averne la piena coscienza. Ero troppo tesa e nonostante la sbornia mi sentivo un pezzo di ghiaccio. Provai a masturbarmi ma mi addormentai dopo il terzo o quarto ditalino.
11. Sognai qualcosa, forse era un sogno erotico. Era una Succube o un Incubus? Tutti e due? Ero troppo rincoglionita per averne piena coscienza, persino nel sogno. Lei, l’oggetto onirico dei miei desideri, era l’attiva o la passiva? Boh? A un certo punto, dopo un milione di anni, aprii gli occhi e la luce del giorno già filtrava dalle persiane, specie da quel foro che sembrava un occhio di un Polifemo con la cataratta. Restai all’empasse per un po’, qualche minuto forse, con il cervello a massa. Poi, sbadigliai e fissai il mio orologio Hello Kitty, quello con i cuoricini mobili, comprato ad Akihabara due anni fa, alla Città Elettrica. Quasi mezzogiorno! Cacchio cacchio, avevo dormito un sacco, altro che! Mi capita molto di rado. In genere mi sveglio presto anche dopo le sbornie. Dormo come mangio, come scrivo e come amo: poco e spesso. Avevo l’alito che sapeva d’alluminio, come una minestra riscaldata, e un mal di testa da far paura. L’alcool mi aveva disidratato, avevo una sete tremenda. Mi attaccai alla bottiglia dell’acqua. Mi sbrodolai tutta.
12. Nonostante mi sentissi uno straccio, però, dopo aver ruttato, esultai. Avevo vinto la paura, ero sopravvissuta. Anche se con un po’ di aiutino. Non era stato molto decourbertiniano ma ce l’avevo fatta. Avevo gabbato mostri, alieni e fantasmi. Mi sembrava di aver compiuto un’impresa iniziatica. Da quel momento facevo parte di un club di persone molto ristretto. Avevo vinto me stessa. Pregustavo l’avventura di una giornata intensa, sola in montagna. Dovevo riprendermi dalla sbornia, muovermi, fare degli esercizi, delle flessioni, addominali, braccia e gambe. Subito. Fare colazione, esplorare, studiare, camminare, correre, riflettere, ridere, fare yoga su un ruscello, magari nuda come una selvaggia. Mille cose da fare. Soprattutto la cosa più difficile: scordare lei. Girai la chiave e spalancai la porta al sole, come in una pubblicità di biscotti. Guardai a terra e urlai. Sullo stipite c’erano tre grosse pietre.
13. Cosa è l’irrazionale se non l’assenza di spiegazioni logiche? Non è solo vedere un fantasma o un disco volante. È a volte trovarsi di fronte a eventi razionali ma non interpretabili in modo razionale. Vedete, le pietre possono essere prese e spostate con le mani. Non c’è bisogno di levitazione. Non c’è bisogno di extraterrestri o cerchi nel grano, psicocinesi o cose di questo genere. Ma perché qualcuno si prenda la briga di farlo nel cuore della notte, proprio lì, e di piazzarmele sull’uscio mentre dormo, ecco, questo è qualcosa difficile da spiegare razionalmente. In questo senso accadono a volte cose razionali che sono più misteriose di quelle irrazionali. In statistica le chiamerebbero deviazioni dalla media. Lì, alla Baita, era solo pepe per il mio culo. Dopo l’urlo isterico, contemplai le pietre per buoni dieci minuti, quasi ipnotizzata, neanche fossero state serpenti a sonagli. Tre pietre grigio blu, di dimensioni simili tra loro. Banali basalti. Forse due chili l’una, non di più. Sul gradino. Bene! Ritrovai un minimo di razionalità pensando che finché tenevo la porta aperta in quel modo e stavo fissa sulle pietre come un pesce lesso, persino il più dilettante dei maniaci sessuali avrebbe avuto vita facile a uscire dal bosco o dall’angolo dell’edificio e aggredirmi da un momento all’altro. La coscienza di una possibile violenza fece scattare in me l’adrenalina, ammorbata dalla notte passata a far compagnia al mio amico Mister Walker. Presi il coltello da Rambo che tenevo nello zaino e schizzai fuori con una mezza capriola, sentendomi anche un po’ ridicola. Mi girai attorno aspettandomi di vedere chi lo sa quale essere immondo piombarmi addosso. Invece c’era il nulla. Il bosco, cinguettii, insetti che ronzavano e zanzare che dovevano apprezzare molto la cucina giapponese visto che avevo mani e gambe piene di bolle. Feci giri sempre più larghi finché trovai coraggio e circumnavigai la Baita senza risultati. Il gabbiotto? Era chiuso a chiave e le chiavi ce le avevo ancora in tasca. Dovevo aprire? Sììììììììì. Niente. Vuoto. Allora? Quando si è soli in un bosco, si ha sempre la sensazione di essere osservati. Anche quando non si ha un cazzo da fare. Se poi ti schiaffano tre grosse pietre sullo stipite della tua Baita mentre ti tocchi la passera nel sonno, hai anche qualche dubbio in più in proposito. O no? Che fare? Mentre stavo lì, con il coltello in mano, la mia mente correva a cento all’ora. Qualcuno mi aveva spiato e sapeva che ero lì. Sola. Era ovvio. Del resto, non era impossibile. Avevo avuto indizi di presenze passate nella Baita. Il cesso, la lampada, la poca polvere. Forse le stesse misteriose presenze non erano proprio così passate. Schifavo i topi ma mi ritenevo una ragazza forte e coraggiosa. Non m’ero mai posta problemi a girare sola la notte. I ragazzi che volevano accompagnarmi al portone di ritorno dalla discoteca per proteggermi m’irritavano. Se c’è un modo sbagliato nell’approcciarmi, è fare il tipo protettivo. Forse è per questo che sono diventata lesbica. Ero stata molestata in passato, più di una volta. Una volta anche aggredita, non dico una tentata violenza ma quasi. Gli eventi in questione non avevano lasciato in me alcun trauma. Il mio problema, semmai, era la mancanza di traumi, la fottuta inerzia del vivere. Ma non pensate che sono così stupida al punto di andarmela a cercare più del dovuto. Sulla questione, nello specifico, pensai che la probabilità che ci fosse un bavoso pronto corrermi dietro con l’uccello in mano per sbattermelo dentro ogni mio orifizio e poi magari farmi anche fuori, non era certo trascurabile. Certe cose sono matematiche. Ma-te-ma-ti-che. Non m’importava affatto approfondire il mistero della strega di Blair. Tre pietre? Scomodare Freud? La Dea Madre Universale? La cultura dei Dolmen e cerimonie Wicca? Non me ne fregava un benemerito cazzo! Occorreva dunque fare una sola cosa. Molto coraggiosamente. Temerariamente. Telare. Subito. Immediatamente. Senza indugio. Buona idea, Grazia, mi dissi. Ultimamente andavo più d’accordo con me stessa. Presi quelle tre pietre, una a una, e le gettai dietro un cespuglio. Tié, pensai. Wicca delle mie gonadi, andatevele a riprendere! Vaffanculo!
14. Chiusi tutto, mi ricaricai le spalle rendendomi una zavorra umana e presi il sentiero per l’auto. Ero nera dalla rabbia oltre che impaurita. Metà e metà. Possibile che non potessi essere lasciata in pace mai? Nemmeno lì? Avevo cercato un posto del genere per non vedere nessuno, per stare sola con me stessa, per studiare, e guarda te, ecco che arriva uno stronzo a mettermi le pietre allo stipite della porta! Quando arrivai davanti all’auto, molto sollevata nel ritrovarla intatta, misi tutto nel portabagagli e mi accesi una sigaretta. E se? E se non gliela avessi data vinta? Se fossi tornata indietro? Che razza di donna ero? Facevo tanto la disinvolta, dormivo nei boschi da sola, mi sentivo speciale, più forte, più bella, più intelligente di tutte, e, cara la mia “miss ce l’ho solo io”, me la facevo sotto per tre “serci” davanti alla porta? Scossi la testa. Che cosa cercavo davvero? Avventura o serenità? Contemplazione o azione? A volte mi sentivo come in quella canzone di Tricarico: “Io voglio una vita tranquilla perché è da quando son nata che son spericolata”. No, gettai la cicca a terra, stanca di far l’ecologista. Quella cosa non “s’ha da fare”. Già m’ero stufata. Me ne sarei andata in una pensioncina e bona lé. Volevo la montagna? C’erano un sacco di sentieri, eccola la natura selvaggia, guarda!, ma a dormire avrei lasciato le chiappe su un materasso. Stavo per risalire in macchina e mettere in moto per andarmene quando mi ricordai di una cosa. Una cosa banale. Una fottuta cosa banale. Cazzo, devo spurgare l’acqua dai tubi! Mi venne da ridere. Un maniaco o la strega di Blair forse mi danno la caccia e io penso all’acqua da spurgare nei tubi della motopompa. Sono proprio matta. Avevo le mani sul volante e non sapevo bene cosa fare. Vedete, anche se sono eccentrica e strana, sono una tipa leale. Corretta. Se prendo un impegno, lo mantengo. Se qualcuno mi chiede di fare una cosa, una cortesia, io la faccio. In questo senso sono molto giapponese. Sono fatta così. Oserei dire, anche se è assurdo, specie da una poco di buono come me: sono una brava persona. Sospirai e mi dissi. Va beh, godiamoci quest’ultimo thrilling.
15. Ripercorsi quel sentiero per l’ennesima volta, ormai mi stava dando la nausea. Quando arrivai di nuovo alla Baita, mi fermai e rimasi paralizzata dal terrore di ritrovarmi di nuovo a combattere con le tre misteriose pietre. Ma non c’erano, erano ancora là, dietro quel cespuglio. Per un attimo avevo temuto che qualcuno le avesse rimesse al loro posto, davanti alla porta. Questo non l’avrei proprio accettato. Avrei, come dire, disistimato la cosa. Mi girai intorno. Mi sembrava come se il bosco si fosse fatto più vicino, più silenzioso. Anche gli uccelli cinguettavano di meno. O era un’impressione? Rimasi lì senza avere il coraggio di fare un passo avanti o indietro. Bloccata. Pensai, so che è ridicolo, ma è così: ecco una bella storia da scrivere su USAM. Abbastanza spaventosa, no? Il Cattivotenente non avrà da rimproverarmi che scrivo sempre storie lesbo. Oddio, una componente lesbo ce l’ho lasciata lo stesso e c’è ancora Nozomi di mezzo alle palle. Ma l’ispirazione per una storia diversa dal solito, cazzo, c’è! Che colpa ho se capitano tutte a me? Ah, cazzo!, pensai ancora. E se invece fossi finita non su USAM, ma sul Messaggero? “Ragazza ventiquattrenne trovata squartata nel reatino: si pensa al suicidio”. Mi feci forza e mi sbloccai. Aprii il gabbiotto, azionai la pompa all’inverso fino a che il manometro non segnò un’atmosfera. Richiusi. Ora potevo andarmene. Poi lo sguardo cadde sulle pietre, dietro al cespuglio. Stavano lì, dove le avevo lasciate. Mi venne un momento di vigliaccheria. Non so perché lo feci. Sono agnostica ma in quel frangente temetti di essere perseguitata da qualche spirito immondo per il resto della mia vita. Tre streghe Wicca a mordermi il culo. Già ho abbastanza guai. Sapete, non è vero ma ci credo. Agnostica non vuol dire atea, vuol dire “boh”. Quindi? “Hai profanato le sacre pietre!”. Così, lo so, è ridicolo, le rimisi a posto, una a una, baciandole, come nel film della strega di Blair. Non basta? Ora potevo davvero andarmene, ma… Un’occhiata dentro alla Baita? No, senza aprire di nuovo la porta, solo un’occhiata dalla persiana, da quel buco dove si può dare una sbirciatina. Per vedere se è tutto a posto. Solo una. Il fatto è che sono sempre stata attratta dalle mie paure. Mi affascinano. Posso cedere a tutto meno che alle tentazioni. Capite ora il significato della mia firma? È pura ironia! Davvero, ho bisogno di uno psicologo! Farlo o non farlo? Lo so che l’avrei fatto. Per questo mi sono avvicinata alla persiana e ho sbirciato anche sapendo, dentro me stessa, che non dovevo. Perché nella Baita c’era qualcuno. Perché dentro, chiusa in un sacco a pelo, dormiva una ragazza. E quella ragazza ero io.
16. Corsi a perdifiato per la mulattiera rischiando di cadere più volte. Ansimavo come nel più magistrale degli orgasmi. Temevo che il cuore sarebbe scoppiato dalla paura. Quando giunsi alla macchina l’abbracciai chiamandola “mamma”. Cercai di calmarmi. Cercai di fermarmi. Tremavo come un diapason, non riuscivo nemmeno a infilare le chiavi della serratura. Decisi di fumarmi una sigaretta fissando la cicca che avevo buttato neanche dieci minuti prima e cercai di razionalizzare. Mi appoggiai al cofano e provai un enorme deja vù. Di nuovo. La sensazione di già visto. Mezzogiorno e qualcosa. Tutto era come il giorno prima. La direzione del vento, le foglie che si muovevano.
- Io sono già stata qua, - Mi dissi. Come? Dove? Dove ho visto questo posto? Vi è mai capitato di fare dei sogni, all’interno dei quali ricordate episodi vissuti in altri sogni? Ecco, era cosa del genere, ma molto potente. Forse era solo un banale deja vù. Ma la solitudine e la bellezza del posto amplificarono quella sensazione fino al mancamento. Dovetti sedermi al cofano per non cadere. - Cominciamo bene, - Pensai.
- Oh, cazzo! Era troppo. Mi rialzai dal cofano, riuscii stavolta a infilare le chiavi nella serratura, accesi il motore e con la peggiore delle manovre tornai indietro. Dopo tre metri inchiodai l’auto. Cos’avevo detto? “Tornai indietro”. Fissai l’orologio con Hello Kitty e i cuoricini. Poi, senza guardare dallo specchietto retrovisore ripartii.
EPILOGO
Era ancora Sabato. Naturalmente. Lo scoprii alla radio, lungo la strada per Leonessa. Per certi versi la cosa non suscitò in me tutto questo scalpore. Me l’aspettavo, era razionale nella sua assurdità, l’unica spiegazione possibile se vogliamo, anche se dopo un po’ dovetti accostare per vomitare. L’eredità di Mister Walker. Ero invecchiata di un giorno senza vivere quel giorno. La mia permanenza alla Baita non era stata reale. O meglio, lo era stata ma non in quest’ universo. Omologia? Omotopia? Forse la spiegazione era proprio nella topologia che stavo studiando. Mi trovai un albergo, mi buttai sul letto e cominciai a scrivere formule su formule come una posseduta, dondolando le gambe sul letto. Un anello complesso? Un nastro di Moebius? Una bottiglia di Klein? Prima di capire com’era stato possibile quello che era accaduto, dovevo capire cosa davvero era accaduto. Questo era il ragionamento giusto. Forse era un “loop”. Poteva essere un lemma, ovvero una soluzione parziale. Ma nonostante mi scervellassi non riuscivo a capire. Una Nozomi A esce dal continuum dello spaziotempo ordinario ed esegue un “loop”. Un giro come sull’otto volante. E poi esce dal “loop” e torna indietro. Uscendo s’incrocia con la successiva che arriva, Nozomi B. Le due Nozomi, ricongiungendosi al nodo del “loop” si sovrappongono finendo per trovarsi in uno stato degenere, una discriminante nulla, mentre Nozomi B, la doppelganger, ripercorre, passo passo, il cammino di Nozomi A. Un “loop”. E il deja vù era il nodo. Mi grattai la testa con la penna. Eppure le cause con gli effetti non tornavano. C’era qualcosa di sbagliato in tutto quello. Neppure la logica formale tornava. Chi aveva messo o tolto le pietre? La Nozomi A o la Nozomi B? Se una compie un giro, perché l’altra la vede? Non dovrebbero trovarsi nello stesso universo. O vuol dire che c’è un momento in cui entrambe sono nello stesso universo? Meccanica quantistica? Correlazioni? Era come cercare di risolvere il problema dei sette ponti di Eulero. Mi misi le mani sulla testa fissando le formule. Poi mi coricai sul letto e sospirai. Lasciai perdere. E sì che mi vantavo di avere un Q.I. di 145. No, forse la soluzione non andava cercata nella topologia. Forse avevo immaginato tutto. Quella era l’unica soluzione. Ma sì, chiudiamo la storia come un sogno e finiamola lì. Mi ritirai su subito. Ma avevo davvero mangiato il cibo che mi ero portata dietro. Avevo davvero bevuto mezza bottiglia di whisky. Potevo controllare. Allora non era stato un sogno. Ma se allora persino i miei ricordi fossero stati viziati da quell’esperienza come potevo provare che fosse realmente accaduta? Mi ributtai giù. Cedetti. Forse mi appisolai una mezz’ora. Poi, stanca e stressata, mi affacciai dalla finestra dell’albergo e vidi passare la gente del paese per la strusciata del sabato sera. Sembravano così lontani da tutta quella follia che c’era in me che quasi mi facevano tenerezza. Eccoli, i normali. Perché non sono così? O meglio, perché quando provo a essere normale mi sento così a disagio? D’un tratto ebbi un’illuminazione. Mi chiesi se quello che m’era capitato, se veramente m’era capitato, non fosse altro allora che una metafora della mia condizione. Forse avevo lasciato una parte di me alla Baita, questo voleva dire. E se fosse stato così, era la Nozomi A o la Nozomi B che era rimasta là? La migliore o la peggiore? Non lo sapevo. Avevo molte cose da chiedermi ancora. L’unica cosa che contava era ora andare a casa e vedere cosa sarebbe successo. Là, in quella Baita non ci sarei tornata neanche morta. Ne avevo le gonadi piene della montagna. Infatti sono tornata. E dove sono stata poi per il resto della mia assenza da USAM, quindi, non ve lo dirò mai. O chi lo sa! Ma se vi dovesse capitare d’incontrare in qualche Baita di montagna, provincia di Rieti, il 10 di settembre 2011 (sarà sempre e solo un dieci di settembre 2011), una strana ragazza mezza italiana e mezza giapponese che vaga nel nulla e parla da sola, sappiate, in quel caso, che siete entrati anche voi in un “loop”. Un banale giro sull’otto volante. Ma state tranquilli. Solo lei, a differenza di voi, rimarrà per sempre là.
Edited by Nozomi - 2/10/2011, 20:53
|
|