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Una goccia di sudore si lanciò suicida dalla fronte imperlata. Esplose in un fradicio splash a non più di cinque centimetri dalla morbida pelle della coscia della ragazza. "Che pena. Ogni volta è peggio". pensava osservando i segni violacei che la poverina aveva intorno al collo, ai polsi e alle caviglie. L’espressione atterrita, provata da atroci sofferenze e quell’implicita richiesta d’aiuto, bloccata nel tempo sul volto tumefatto, risvegliavano in lui una potente emozione. Non era la prima volta. Era o non era il suo mestiere? Certo: medicina legale, sala autopsia! Eppure c’era un non so che di ammaliante in tutto questo. Gli creava dipendenza. Era disgustato da ciò che era costretto a fare, costretto a vedere, ma era anche soggiogato dal fascino ambiguo di spiare dentro un corpo umano. Provava un sottile piacere nel frugare fra gli organi interni, cercando di carpirne i segreti più reconditi. Lo faceva pensare all’insano godimento di chi, nascosto fra gli arbusti, spia le coppiette appartate in una fratta.
Queste sensazioni lo infastidivano, lo ripugnavano anche, ma tant’è, non poteva farci nulla.
Questo pensava, mentre incideva preciso col bisturi sotto il seno sinistro della vittima, livido e intarsiato da sottili cicatrici: morbose lesioni da arma da taglio.
Era orgoglioso del suo bisturi. Oh sì! Così lucido e scintillante. Emanava saettanti lampi di luce riflessi dell’asettica lampadina al neon al centro dal soffitto, proprio sopra il tavolo operatorio. Lo aveva pagato più di duecento euro. Aveva passato serate intere, nella solitudine della sua camera, ad accudirlo, a renderne la lama sempre più affilata, a strofinarlo, a lucidarlo e infine ad ammirarne la sagoma fulgida ed efficace. Era veramente un bellissimo oggetto. L’oggetto più bello che avesse mai posseduto. Sentiva di volergli bene e aveva la sensazione di esserne ricambiato. Era suo, solo suo, altro che quei ferri vecchi che erano soliti girare in ospedale. Averlo in pugno dava un senso di onnipotenza. Sentire la sua lama affondare dolcemente nell’epidermide oramai gelida e irrigidita della fanciulla, lo faceva sentire male e, al tempo stesso, benissimo. Lo nauseava vedere la pelle aprirsi, poro dopo poro, spalancarsi come un sipario e vomitare fluidi e tessuti organici, ma gli donava anche un appagamento raramente provato in altri frangenti della sua vita.
Già: la sua vita.
Fallimento era la parola che la mente associava a questo concetto. Mediocre a scuola. Spesso deriso dai compagni per quel suo essere introverso. Le ragazzine, soprattutto loro, erano crudeli e spietate. Ricordava perfettamente, con odio quanto mai netto, il volto ululante della ragazzina che corteggiava alle medie, mentre, sghignazzando, urlava alle amichette: "È proprio una frana! Non sa neanche baciare, che pappamolla, che pappamolla!" E tutti a ridere di lui.
Mediocre anche nel lavoro. Quello che aveva prima, ovviamente. Brillante neolaureato in medicina ridotto a squallido impiegato delle poste, impiego procuratogli dalla premurosa mammina. Scartoffie, scartoffie, scartoffie, colleghi presuntuosi e nulla più.
Camilla.
Anche Camilla, certo. Era per causa sua che l’avevano licenziato. Che le era saltato in mente di spifferare ai quattro venti il fatto che lui avesse tentato, più volte, di infilarle le mani sotto la minigonna? E si che "la santarellina" di cose se ne faceva fare dal suo fidanzato, nascosta dietro quella siepe. Puttana! Andare a dire, poi, di quando l’aveva aspettata sotto casa cercando di baciarla, usandole violenza. Violenza: per un paio di sinceri ceffoni. Ah! Avesse avuto fra le mani il suo fedele, affilato compagno di lavoro. Allora sì, che gliela avrebbe fatta pagare come si deve… Questo pensava, con il cuore che gli martellava in petto, mentre stava sezionando il biondo pube di quella fanciulla: graziosa-ingenua-odiosa studentessa di liceo. I due floridi seni già erano stati asportati e deposti, con cura, nell’apposita cella frigorifera.
Il trillo atono del cellulare, subdolo dono dell'ingombrante mammina, lo fece sobbalzare.
Rischiò di far cadere sul pavimento cosparso di segatura il delizioso pube che aveva finito di sezionare. "Ciao, mamma. Sì, si sto per staccare, puoi apparecchiare. Sì, le solite cose: timbri, pacchi da spedire, conti correnti, marche da bollo, scartoffie da archiviare. OK. Mammina, tra dieci minuti sarò lì. Ciao".
Depose il pube nella cella frigorifera accanto a quelli della altre sei giovanissime ragazze, che avevano fatto tappa nella sua personale sala autopsie negli ultimi due anni. Coprì, con un vecchio plaid, i resti della studentessa sul tavolaccio da falegname di quello scantinato appena fuori città.
Nel pomeriggio il greto del fiumiciattolo avrebbe accolto, in uno dei suoi confortevoli anfratti, il settimo ospite.
Uscì nel bel sole primaverile di mezzodì. Richiuse il portellone di legno dietro di sé. Diede due forti mandate col chiavone di ottone. Trangugiò una bella boccata di quell'aria tiepida: vitale. Si sentì bene, terribilmente bene!
Imboccò la scala che porta ai piani superiori; al terzo lo aspettava un pranzetto caldo: giusta ricompensa al suo penoso, appagante lavoro.
Edited by giorgio.marc - 2/10/2009, 11:44
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