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Rispolvero questo raccontino (leggermente modificato) per USAM. Sono ancora in tempo, vero? Questo racconto non è sensibile, quindi si aspetta critiche selvagge, consigli, i soliti colpi di machete, roba così, insomma.
PROMESSE
Quando decisi di seguire l’Uomo Lucertola nel suo folle viaggio, avevo un forte mal di testa e avrei preferito continuare a dormire. Ma si trattava di un amico vero, dell’unico amico che avessi mai avuto in tutta la mia vita, e mi sembrava doveroso stargli vicino. L’Uomo Lucertola guidava il camper rubato al Circo, artigliando il volante con una mano e appoggiando l’altra sulla leva del cambio e, a ogni sobbalzo, faceva ciondolare quella sua testa sottile come se volesse staccarsela dal collo. Non mi ricordavo il suo vero nome. Forse non me lo aveva mai detto o forse io non glielo avevo mai chiesto e comunque, per tutti quelli del Circo, era sempre stato l’Uomo Lucertola e a me andava bene così. «Ogni promeffa… », attaccò, con quella sua voce sibilante. I suoi genitori – mi aveva raccontato – gli avevano tagliato la punta della lingua con un paio di cesoie quando era ancora in fasce. Da allora, aveva qualche difficoltà a parlare. «… è debito», conclusi io, con uno sbuffo. Era più o meno la centesima volta che lo ripeteva da quando ci eravamo messi in viaggio, quella mattina, e la cosa cominciava a innervosirmi. L’Uomo Lucertola annuì vigorosamente e la sua pelle squamata, colpita dai raggi del sole attraverso il parabrezza, mandò strani riverberi. Per un attimo, mi sembrò quasi un uomo normale e provai compassione per lui. «F-fpe. F-ffffpe… », cercò di dire. «Specie se fatta a una persona in punto di morte», gli venni in soccorso. «Già. Così dicono.» Mi seccava ripetergli che, secondo me, aveva una visione un tantino distorta dell’accaduto, perciò inghiottii la mia risposta e tornai a fissare il paesaggio che scorreva veloce, alla mia destra. L’Uomo Lucertola fece uno strano verso con la gola, poi lo sentii annuire, soddisfatto. Penso che fosse contento di avere un compagno con cui parlare – o con cui tentare di parlare – perché spesso mi capitava di vederlo digrignare i denti nell’imitazione di un sorriso, catturando la sua espressione nel riflesso del finestrino. «Quanto manca?» chiesi, controllando l’orologio. Me ne pentii subito. Ascoltarlo farfugliare frasi incomprensibili era l’ultima cosa che volevo. Per lo meno non prima di un buon caffè. «Ff-fia. F-fia… », si sforzò lui, strabuzzando gli occhi e sputacchiando saliva sul cruscotto. «Lascia stare», lo interruppi. «Non mi interessa più.» Accesi la radio, sintonizzandola su una stazione rock, e cercai di rilassarmi. Per un attimo, decisi di non pensare più a niente. Avrei voluto trovarmi lontano, ad anni luce di distanza, in un posto caldo e silenzioso. Da solo. E in un futuro più o meno prossimo ci sarei andato, ne ero sicuro. Ma prima dovevo aiutare l’Uomo Lucertola. In un certo senso, anch’io avevo fatto una promessa. La notte prima, quando tutte le luci del Circo si erano spente, gli avevo detto che gli sarei stato vicino, che l’avrei aiutato a fare quello che doveva fare. A questo servivano gli amici, no? Lui aveva annuito e aveva cercato di dire qualcosa senza riuscirci. Quindi si era limitato ad abbracciarmi, tenendomi stretto tra quelle braccia ruvide e verdastre. Sembravano passati secoli e invece eravamo in viaggio solo da poche ore e i ricordi erano come un velo d’ombra sospeso sopra la mia testa. Ricordavo l’Uomo Lucertola che rubava le chiavi e, appoggiando un dito alle labbra, mi faceva segno di salire sul camper. Ricordavo la prima parte del percorso, a fari spenti per paura che qualcuno ci vedesse. Ricordavo quell’autostoppista così carina, ferma sul ciglio della strada mentre la luce del mattino iniziava a spennellare di ambra e di velluto il paesaggio e ricordavo anche fin troppo bene la faccia dell’Uomo Lucertola, quando abbiamo caricato la ragazza a bordo. La ragazza. Già. Mi voltai e vidi il sacco a pelo che ci eravamo portati dietro, srotolato come un sudario. La testa mozzata mi fissava con aria accusatrice. Le braccia e le gambe, tranciate di netto, erano poco distanti, ammucchiate le une sulle altre come ceppi di legno da ardere. Una macchia di sangue quasi rappreso impregnava il sacco a pelo e – me ne accorsi solo in quel momento – emanava un odore nauseante. Trattenni un conato di vomito e mi passai una mano tra i capelli sudati. Non avrei mai dovuto farlo. Non avrei dovuto seguire quel folle in un’avventura così assurda e malata.
«Dove f-ftai andando?» aveva esordito l’Uomo Lucertola. Il difetto di pronuncia era solo accennato. «Barcellona.» «Non proprio girato l’angolo, eh?» Aveva sorriso e lei si era fidata di quel sorriso. Un sorriso che, evidentemente, le aveva fatto dimenticare tutto il resto. «Questa è la mia terza tappa in autostop. Conto di arrivarci in almeno altre dieci riprese.» «Ti prometto che ti porteremo noi fino a Barcellona», le aveva detto battendosi una mano sul petto e spostando il peso del corpo sul sedile, prima di saltarle addosso e affondare i denti nel suo collo; prima di staccare brandelli di pelle e carne a ogni morso, mentre il sangue sgorgava dalle ferite e gli annaffiava la faccia come un idrante fuori controllo.
Ti prometto che ti porteremo noi… «Ogni promeffa è… » cercò di dire l’Uomo Lucertola, come se avesse catturato i miei pensieri, inclinando la sua testa da rettile. Fu come se avesse azionato un interruttore nella mia testa. Tutto d’un tratto, la rabbia mi montò dentro, quasi stordendomi. «Stupido figlio di puttana, fanculo la tua promessa», sbottai, sputandogli in faccia tutto il mio disprezzo. «Sei tu che l’hai ammazzata. Tu l’hai fatta a pezzi. Tu, tu, tu. Pazzoide schizzato che non sei altro.» Lo afferrai per il collo e cominciai a tirarlo verso di me, scuotendolo come se fosse una pianta carica di frutti. Ero fuori di me. Il camper cominciò a sbandare a destra e a sinistra. L’Uomo Lucertola cercava di lottare per riprenderne il controllo ma io ero come impazzito. Continuavo a strattonarlo e a tempestare di pugni e schiaffi quella sua faccia appuntita e squamosa e a ogni colpo il veicolo sbandava sempre di più, in uno stridere di pneumatici e colpi di clacson delle auto sull’altro lato della carreggiata. Con la coda dell’occhio notai gli arti amputati del cadavere sparpagliarsi per tutto l’abitacolo, come serpenti impazziti. Afferrai al volo una gamba e, impugnandola per la caviglia, iniziai a picchiarla sulla testa dell’Uomo Lucertola come se fosse una clava. Schizzi di sangue annaffiarono il parabrezza e le braccia protese di quel mostriciattolo verde che fino a poco prima consideravo il mio miglior amico. «Bastardo!» urlai, gli occhi iniettati di odio. «Sei solo uno stupido bastardo.» L’Uomo Lucertola stava arrancando sotto i miei colpi, cercando di difendersi ma non riuscendoci, quando le ruote persero aderenza con l’asfalto e un sobbalzo improvviso mi catapultò all’indietro. Il camper aveva finito la sua corsa contro un albero.
* * *
Sono passati cinque giorni dall’incidente con l’Uomo Lucertola. O forse cinque anni, non ricordo. Stare qua dentro ti fotte il cervello. È come se te lo scavassero, te lo prendessero tra le mani e, quasi fosse una palla di acqua e farina, iniziassero a impastartelo per benino. Non è una sensazione piacevole, a volte fa male. Ancora qualche annetto e poi dovrei uscire, dicono. Se tutto va bene. Se le medicine non mi ammazzano prima.
Sento la porta della cella d’isolamento aprirsi con un cigolio che, nelle mie orecchie, ha il suono di unghie sulla lavagna. La mia testa è sempre più pesante, la sento gonfiarsi a dismisura. «Dobbiamo proprio farlo?» chiede una guardia. Questa volta sono in due. C’era da aspettarselo. La luce intensa mi ferisce gli occhi come una manciata di aghi ghiacciati. Vorrei urlare ma non riesco e mi limito a sbavarmi sulla camicia. Medicine del cazzo. «Ordini del direttore», commenta l’altra. Ha una voce talmente acuta che mi fa stridere le orecchie. «Tu gli tieni la testa e io lo medico.» Metto una mano davanti alla faccia per proteggermi. La luce mi sta entrando dentro. Mi invade. Sento delle dita scivolarmi sulla faccia, afferrarmi la bocca e stringere. «Come cazzo gli è successo?» domanda una delle due guardie, schifata. Ora le voci sono ovattate, distanti. Faccio quasi fatica a distinguere le parole. «I suoi genitori», sento rispondere, prima di ripiombare nel mio mondo di sogni psichedelici. «Quei pazzi gliel’hanno tagliata con una cesoia quando era ancora in fasce.»
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