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PREDATORI E PREDE
Ore 8.30 La ragazzina è in perfetto orario, come al solito. Autobus, strada, sosta al bar, scuola. Tutte le mattine, la sirenetta ripete le stesse azioni, come un meccanismo incapace di incepparsi, un fantasma dietro gli occhiali con la montatura scura, occhi sfuggenti che nessuno nota. Non ha amici, né amiche. Sola come un ragno che tesse la sua tela, sfila accanto agli altri saluntandoli appena con un cenno della testa e arrosisce se non ricambiano il saluto. Si chiama Clelia, un nome che imbruttirebbe anche una sirena, ma lei non ha questa fortuna, è solo una sirenetta, innocente come latte appena munto, che non sa di essere osservata. Ho sentito chiamarla per nome solo un paio di volte, dall’unica ragazzina che le rivolge la parola, una molto più carina di lei, anche troppo perché possa degnarla della sua considerazione ancora a lungo. E quando le parla, la mia sirenetta arrossisce. La chiamo così per via di quello zaino sotto cui è seppellita, dove spicca l’adesivo di Ariel, la sirena dai capelli rossi a firma Walt Disney, col suo fedele granchio accanto. La sirenetta. Ha i capelli sempre secchi, di un colore a metà tra il carota e il ruggine, legati in una coda di cavallo tenuta insieme da un elastico e quattro mollette gialle, e profumano di lavanda. Riesco a sentirne l’odore ogni volta che passa qui davanti. Lei mi nota appena, in fondo io sono solo un tizio che scarica le cassette di frutta al mercato rionale. Probabilmente crede che io sia un rumeno, un albanese o un qualsiasi altro straniero dell’est europeo. Non potrei darle torto, la carnagione e il taglio degli occhi non mi rendono giustizia e certo non tradiscono le mie origini, italiane al cento percento. Anche oggi la sirenetta mi sfila davanti senza vedermi. La osservo, come sempre, ma ho come l’impressione che sia più tesa del solito, come se un nascosto segreto la turbasse. Poi qualcosa distoglie la mia attenzione, un sommesso ringhiare di quelli che ti gelano il sangue. E' ancora quel tipo col suo cane, uno che esce tutte le mattine con l’aria di chi sia costretto a farlo da una moglie che non è mai stata una sirenetta. L’animale è un Alaskan Malamute, credo si chiami così, un bell’esemplare dal pelo bianco e grigio, non c’è che dire. Una volta ho visto un documentario in cui spiegavano che gli americani rischiarono di far estiguere la razza durante la seconda guerra mondiale, in quanto utilizzati in battaglia, non so bene a quale scopo, forse per l’avanscoperta o per trasportare armi e medicinali. Sarebbe una buona pellaccia da rivendere a quelli dei combattimenti clandestini tra cani, peccato che io non ne conosca nessuno. - Mi scusi - mormora l'uomo, puntuale nella sua meschinità, - è buono, non lo fa mai con nessuno. Tutte le volte la solita solfa. Stronzo bastardo, tu e il tuo schifoso cane, che mi fissa con gli occhi di fuori, i denti scoperti e la bava alla bocca. Che cosa senti, lurida bestia, che ti dà fastidio? Cosa vuoi da me? Se potessi, tirerei fuori un coltello e lo sgozzerei adesso, come fanno i cinesi prima di servirli sui tavoli dei loro fottuti ristoranti. - Nessun problema, - ecco che recito il solito ritornello, - sarà l'acqua di colonia. Ci facciamo una risata, poi li osservo allontanarsi. Bene, dov'è la mia sirenetta? Eccola, ora sta facendo sosta al bar, come tutte le mattine. Mentre fingo di controllare le arance, continuo a osservarla. La vedo parlottare con un ragazzino più grande di lei, probabilmente uno di terza media. A un tratto si gira ed esce dal bar con la faccia tra le mani, ballonzolando assieme al suo zaino. Povera sirenetta, forse è la prima delusione d’amore della sua vita? O forse l’ennesima dopo tante? La osservo mentre fugge e viene dalla mia parte. Le scarpe da ginnastica scivolano sul pavimento umido di pioggia e lei frana a terra col sedere sul marciapiede. E’ il momento. Strano, come possa accadere. Qui, adesso. Adesso. Mi precipito da lei e mi chino per aiutarla. - Tutto bene? Ti sei fatta male? Lei alza gli occhi verso di me e nell’incontrare il suo sguardo al di là degli occhiali spessi come fondi di bottiglia, riconosco la creatura fragile che vi si cela. - No, grazie. – Risponde in fretta, cercando di tirarsi su da sola, ma trovando il peso dello zaino a inchiodarla dov’è. - Aspetta. – La aiuto, la tiro su a forza e finalmente è in piedi. Nel suo cappotto rosso e verde sembra un albero di Natale appena scongelato. E’ dicembre e il clima è rigido, ma non così tanto da trincerarsi dentro un’imbottitura del genere. La timidezza governa la sua vita sotto ogni aspetto, così come fa con la mia. - Grazie. – Ripete, incespicando mentre si allontana da me. - Aspetta, tu zoppichi! – Le tengo una mano, che è così liscia, come seta. – Vuoi che ti accompagni a casa? - No. – Risponde, voltandosi appena, un solo sguardo, un attimo per scoprire che anche io esisto, che anche io sono come lei. Solo. Poi se ne va, ma so che sarà per poco. Come a leggere nei miei pensieri, si ferma dopo pochi passi. Si massaggia la caviglia, inginocchiandosi, e piange. Vado verso di lei e mi rendo conto di avere un’arancia in mano. La raggiungo e mi chino per starle accanto. - Tieni. La sirenetta osserva l’arancia che le sto porgendo come se fosse un dono di nozze. Mi chiedo se qualcuno le abbia mai offerto niente, se abbia mai ricevuto un regalo. Forse solo un orsetto di peluche, con un bottone al posto dell’occhio destro e la schiena ricucita con del filo rosso, il giorno di Natale. Ma questa è la mia eredità. Mi sembra ancora di vedere la faccia di mio padre in quel cazzo di Natale, con il pupazzo in mano e il suo sorriso sdentato, come se mi stesse facendo il regalo più bello di tutta la sua vita. Un fallito di merda, che non mi ha mai dato niente, eccetto una madre puttana e una rabbia cieca. Starà dibattendosi sotto il metro di terra che lo ricopre, vendomi oggi? Mi piace pensarlo. - No... – risponde incerta – grazie. - Ti fa male? Annuisce. - Aggrappati a me. Lei allunga il braccio e si avvinghia al mio, poi faccio leva sulle gambe e la tiro di nuovo in piedi. - Hai bisogno di ghiaccio. Ne ho un po’, se vuoi. Nei suoi occhi intravedo ancora l’ombra del dubbio. - Lavoro qui. – Le spiego. – Dovresti avermi già visto. - Sì. – Mormora. – Credo di sì. - Ho del ghiaccio sul camion. Le indico il Ducato blu parcheggiato in fondo al vicolo. Dà uno sguardo all’orologio, poi scuote leggermente la testa. - Sto facendo tardi. Devo entrare a scuola. Si muove ma la caviglia le lancia una fitta e la sirenetta si piega su se stessa, come ad abbracciarsi la coda. - Ti serve del ghiaccio. Vieni. Mi avvio verso il camion, senza voltarmi. Il portellone dietro è aperto, ci sono ancora alcune colonne di cassette di frutta da scaricare, ma in fondo non importa, posso farlo più tardi, dopo aver finito con lei. D’altronde non posso permettermi di farle marcire, al giorno d’oggi non è facile tirare avanti con una paga come la mia e con questi dannati rumeni che lavorano per due soldi, soffiandoti il posto alla prima occasione. Quando arrivo al furgone, salgo dietro e inizio a frugare tra le scatole per attrezzi alla frenetica ricerca di qualcosa. Neanche un minuto e odo i passetti fuori dal furgone. - L’ha trovato? Mi giro ed eccola lì, la sirenetta, che mi osserva con fare curioso, ma ancora diffidente. - La sacca del ghiaccio deve essere qui. Solo che... Sbatto una borsa contro il furgone, una, due, tre volte, sforzandomi per convincerla delle mie azioni. - Non viene via. E’ incastrata! Continuo a sbattere la borsa, aspettando fiducioso che sia lei a offrirmi il suo aiuto. Ma non lo fa. - Mi dispiace. – Mi arrendo infine. – E’ incastrata sotto una cassa, non riesco a tirarla fuori da solo. Un respiro sospeso che dura qualche secondo, poi... - Le serve aiuto? La guardo. Sorrido. - Ti spiace? - No, certo. – Risponde, iniziando a salire sulla rampa di metallo che porta all’interno del Ducato. Mentre si avvicina lancio uno sguardo al vicolo. C’è solo una persona, laggiù, ancora il tizio di prima a passeggio col suo maledetto cane. Qualche volta la sirenetta si ferma a giocare con quella bestiaccia e a volte immagino che il Malamute impazzisca e la morda; mi vedo correrle incontro per salvarla, sentire il suo abbraccio caloroso mentre la sottraggo al suo predatore e annusare il profumo dei suoi capelli. Avere la sua gratitudine. La sua fiducia. L'agnello tra le braccia del lupo. Il mio godimento. Il tizio scompare dietro l’angolo e torno in me. Ora posso dedicarmi alla sirenetta. La mia tenera preda. - Dove si è incastrata? Lei si avvicina e io mi scanso per farle vedere. - Ecco. – Indico la borsa di attrezzi sul pavimento. – Lì dietro. Lei si affaccia per guardare. Facilissimo. L’afferro per un braccio e le tappo la bocca con una mano. Lei scalpita, cerca di urlare, tira calci da tutte le parti come un pesce nella rete. La tengo ferma e la spingo nell’angolo, dietro la colonna di cassette. Anni e anni di lavori nell’agricoltura e nell’edilizia hanno fatto delle mie mani due autentiche pale, grosse e dure come macigni. La mia stretta è una morsa, come quella di un leone che abbia agguantato la sua preda. Mentre la tengo ferma contro la sua volontà, sento crescere l’eccitazione, quella scarica d’adrenalina che ti dà il brivido della caccia, dominare la preda in pieno giorno, sotto gli sguardi di tutti, sfidare la legge, il destino, Dio stesso e sapere di averla fatta franca, di essere superiore a tutti. L’ebbrezza che ti rende vivo, che ti fa fremere di piacere... La ragazzina lotta sempre più disperata, mentre le strappo di dosso quel ridicolo cappotto e avvicino la mia faccia alla sua, a quegli occhiali da secchiona che la rendono così speciale, un autentico cimelio in un mondo di puttane. - Se urli ti ammazzo. Si pietrifica e resta tremante a fissarmi. - Brava. – Sussurro. – Se stai ferma, ti lascio andare. Non si muove, com’era prevedibile. Le slaccio gli ultimi bottoni del cappotto e le infilo una mano dentro i jeans, assaporando l’idea della sua innocenza, del tenero fiore che... - FERMO! La voce mi fa scattare. Balzo in piedi e mi giro mentre un righio spacca l’aria e mi assale con le fauci spalancate. Qualcosa mi spinge a terra e il male allo stato puro mi sradica il cuore, un dolore lacerante mi strappa le urla dall’anima mentre il cane sopra di me affonda le zanne nella mia gola. Avverto il calore dell’urina tra le gambe e la consapevolezza di essermi pisciato addosso mi attanaglia rivelandomi quello che sta accadendo. Sto per morire. Perdio, no, non per questa ragazzina! E’ una stupida sirenetta che nessuno vuole intorno, che nessuno può apprezzare come farei io... che c’entra il cane? I cani ammazzano i ragazzini, i telegiornali non fanno che parlarne, non se la prendono certo con quelli come me! Non può essere un maledetto cane eroe, non è la seconda guerra mondiale, sono solo un uomo! Non voglio morire, non posso morire! Sento il padrone urlare, come se cercasse di richiamare il cane, o forse per aizzarlo, non lo capisco, e la bambina urla, il Malamute ringhia, il muso lordo di sangue si contrae sopra i denti che dilaniano la mia carne e tutto si fa nero... Il dolore però non si attenua, invece mi spacca dentro, come a trivellarmi il cervello e dalla tenebra emerge il rosso dell’inferno, che si spalanca sotto di me per ighiottirmi dentro il suo dilaniante abisso. Dai suoi meandri, che non posso vedere se non con il terrore dell’immaginazione, riesco a vedere me stesso, a come sono dentro, e il lordume di cui è pregna la mia vita mi sommerge, invischiandomi in una melassa di dolore... Vedo e so. Quello che sono, veramente. E' a questo punto che odo le urla dei dannati levarsi a chiamare il mio nome, bramare il mio corpo e la mia anima perversa, nel fuoco che mi consuma. No! Mani ossute e scarnificate mi toccano, mi toccano... mi toccano... mi toccano... mi toccano... E così mi consumo, nel fuoco, per sempre.
Edited by Daniele_QM - 7/5/2009, 09:58
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