Caramelle di vetro
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Caramelle di vetro

di gelostellato (8500caratteri)

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  1. gelostellato
     
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    Caramelle di vetro





    Da quando Nestore aveva mangiato il primo specchio la sua malattia era svanita.
    Suggestione? Casualità? Follia? Non gli importava. Gli interessava soltanto che quel terrore fosse scomparso, che quel brivido che lo avviluppava e scuoteva, come un grosso pesce che fa a brandelli un lombrico, non tornasse più.

    Perché era così che si sentiva davanti a uno specchio.
    A pezzi.
    Mentre il riflesso rimandava semplicemente il suo volto, pallido e smarrito, a lui pareva che le parti del suo corpo, sghembe e inutili, fossero sparse tutt'attorno, osservandosi l'un l'altra.
    Là, ecco un piede che occhieggiava al polpaccio, che fino a poco prima non avrebbe mai potuto toccare. E quello, a sua volta, fissava il busto, o una mano, o un brandello di faccia, buttato a terra come uno straccio bagnato. E lui, senza alcuna spiegazione, si sentiva così, come esploso. Paralizzato da quella lastra che raddoppiava le sue membra, staccandole e schiantandole come gli acini di un grappolo d'uva che precipita da una montagna.
    Perché? Si era chiesto mille e mille volte, gridando di rabbia e frustrazione.
    Ma col tempo aveva imparato a non farlo più, e come in un ripetuto assedio, si era limitato a difendersi, a limitare i danni.
    Tutto questo fino al giorno in cui aveva ingoiato quel frammento.

    Com'era successo? Quale pensiero l'aveva guidato?
    Di specchi ne aveva rotti a decine, certo. Ogni volta che era riuscito a coglierli di sorpresa, avvicinandosi a occhi chiusi. A pugni, martellate, schiantandoli contro il pavimento, calpestandoli. Ma mai gli era venuto in mente di prendere un coccio, rigirarselo tra le dita arrossate, e ingoiarlo, succhiandolo come fosse una caramella di vetro. E dopo il primo, come posseduto da una fame cieca, si era accovacciato tra le schegge, cercando i pezzi più piccoli, meno taglienti, e gettandoseli in gola; sentendoli scivolare nello stomaco, rotolando tra sangue e saliva.
    Ed era guarito.

    Da quella volta non era rimasto più imbambolato, con la bava alla bocca, davanti a una vetrina inattesa o al retrovisore di uno scooter. Non aveva dovuto farsi trascinare e sbloccare la mandibola dagli infermieri del pronto intervento, scalciando e mugolando come un ossesso. E anche i tagli, le contusioni, le fratture di quando si scagliava contro i muri o contro il parabrezza di un auto, non erano che un ricordo; disavventure di un Nestore che emergeva dalla sabbia della memoria e gli assomigliava solo vagamente, come un lontano cugino, o una controfigura. Quel pasto di riflessi e spigoli era diventato l'antidoto a un male che ogni medico attribuiva alla psiche, ma che nessuno era stato in grado di curare. Non gli erano bastate le spiegazioni. Non gli era servito sapere che gli specchi sono solo semplice vetro, e non possono avere un nesso con la scomparsa delle sue allucinazioni.
    – Se non smette dovremo ricoverarla – gli avevano detto, alludendo a quell'assurdo autolesionismo alimentare che l'avrebbe portato alla morte.

    Ma Nestore sapeva di non essere pazzo, e se la cura che poteva guarirlo era più adatta a un condannato a morte, che a un uomo sano, allora era solo una questione di prezzi da pagare.
    E lui aveva pagato.
    Aveva pagato il piccolo martello di acciaio e gli economici specchi della ferramenta, impacchettati nei sacchetti marroni, per portarseli via senza che si rompessero. Aveva pagato qualcuno perché gli recapitasse a casa la spesa e qualcun altro perché gli comprasse cerotti e disinfettante. Aveva pagato con la magrezza, con la solitudine, con l'emarginazione.
    Perché nessuno poteva comprendere quel suo continuo inghiottire cocci. Quel perenne fruscio di schegge che fuoriusciva dalle sue tasche. Le mani e i pantaloni, sempre macchiati di sangue.
    – Sono ammalato – diceva abbassando gli occhi, e lasciando che i pensieri altrui vagassero morbosi tra le ipotesi peggiori.
    Quasi si stupivano, quando lo vedevano ancora vivo, aggrappato all'uscio di casa, per ritirare la posta o prendere una boccata d'aria.

    Eppure, nonostante la sofferenza, e anche se spesso aveva imprecato contro quel non digerire gli specchi, fu in quel piccolo dramma quotidiano che scovò la via per la meraviglia.
    Mentre tossiva sangue, con le mani appoggiate al muro, sopra lo sciacquone, l'occhio gli aveva mostrato i resti non digeriti del suo pranzo, che si muovevano, agitandosi nell'acqua rossastra.
    Piccoli frammenti, sporchi e maleodoranti, che parevano insetti, prigionieri in balia delle tumultuose acque del water. Li osservò attonito, mentre si arrampicavano invano sulla ceramica, volenterosi, come chissà quante volte avevano fatto in passato, prima d'essere trascinati nell'oblio.
    Era bastato avvicinare un indice teso, perché il pezzetto più vivace vi scivolasse sopra, cominciando a passeggiare sul dorso della sua mano, in una danza che non poteva manifestare altro che gratitudine.

    Nestore diventò metodico, preciso, appassionato.
    Se prima ingoiare specchi era una cura, ora era diventato un passatempo. Un modo per trovare il proprio posto nel treno affollato che ogni giorno ci trasporta verso il successivo.
    Frantumare, ingoiare, ripulire i pezzi dalle feci e dal sangue sotto l'acqua corrente, dopo aver raccolto il colapasta da dentro la tazza. Ogni gesto vestiva l'attesa, il momento in cui avrebbe potuto giocare con quei frammenti, che intanto sciamavano festosi, chiusi in grosse scatole di plastica trasparente. Lui li disponeva sul tavolo del salotto e, per quanto si agitassero, bastava una parola, o anche solo un'occhiata, perché s'arrestassero di colpo, in attesa delle sue mani.

    E lui giocava.
    Creava grumi e piccole catenelle, che poi attorcigliava in serpi dai mille riflessi.
    Viluppi grossi quanto mandarini, formati da polvere di vetro, gli ballonzolavano davanti al naso, rumorosamente, guardandolo con le grosse schegge che aveva scelto come occhi.
    Piccole mirror ball rotolavano sul pavimento, rincorrendosi come cuccioli tra i suoi piedi nudi.
    Quel vetro, che aveva preso vita attraverso il suo corpo, gli ubbidiva e lo ascoltava; più amico che servitore, più devoto che succube.
    Com'è possibile? – si era chiesto più volte, ma la domanda si era vestita pian piano di ammirazione, perdendo ogni il bisogno d'una risposta.
    Quando infine, schiavo dell'incanto, cominciò a frantumare specchi colorati, abbandonò ogni cosa, rintanandosi come un tumore dentro un corpo sano.

    Lo trovò la vecchia Anita, la vicina, preoccupata dall'intenso brusio che da ore oltrepassava le finestre.
    L'ingresso non era chiuso a chiave, e lui, nudo, accasciato su una sedia nell'atrio, non pareva nemmeno un essere umano.
    Era scheletrico, con gli occhi spalancati e vitrei. La pelle, coperta di tagli e quasi diafana, si aggrappava a malapena alle ossa, come i brandelli di una vela squarciata. Rivoli di sangue secco scendevano dalle cosce ai polpacci, allargandosi sul pavimento. Le ferite sulle dita erano diventate un pasto per le mosche, che avevano banchettato fino all'osso. Solo le labbra, sebbene non fossero che una poltiglia di pelle maciullata, erano atteggiate a un sorriso.
    Anita inorridì, davanti a quella vista, ma erano giorni che non lo vedeva uscire di casa e trovò semplicemente quel che si aspettava di trovare. Ne aveva visti, di cadaveri, durante la guerra...
    Il brusio però veniva dal salotto.

    Una TV non sintonizzata, pensò Anita. E prima di chiamare i soccorsi, aggirò il cadavere e si diresse verso la porta, ma non appena girò la maniglia il fracasso cessò e uno spettacolo abbagliante le riempì gli occhi.
    Ragni, scorpioni, serpi, scoiattoli, ratti, lucertole e una miriade di altri animali di vetro che non riconosceva, erano rinchiusi in grosse teche trasparenti, come se fossero vivi. I colori dei mobili e dei suoi abiti sbattevano da uno all'altro, in una cacofonia di riflessi infiniti. In un angolo c'era addirittura un acquario, dentro il quale bizzarri pesci restavano sospesi a mezz'acqua. Il gioco di luci era così forte che dovette socchiudere gli occhi, per non rimanere abbagliata, e nonostante questo le pareva che ogni oggetto di quella stanza vibrasse, come di una forza trattenuta.
    Ma ciò che sbalordiva maggiormente, immobile al centro alla stanza, era la figura femminile, anch'essa fatta per intero di vetro, con le braccia bloccate come se stesse correndo per abbracciare qualcuno.
    Anita non se ne avvide, ma nel caleidoscopio di riverberi che era quel volto, c'era un sorriso identico a quello di Nestore. Poi, d'un tratto, il sorriso mutò in un ghigno di rabbia, e il frastuono, rabbioso, travolse il silenzio.

    Edited by gelostellato - 19/5/2009, 14:01
     
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