La Cometa di Natale Rev. 3 (Ciriole&Panpepato)
La città, centodiecimila abitanti, si era sviluppata al margine estremo rispetto all’estensione della conca, una piana circondata da colline; un tempo doveva essere stata una palude, forse un lago. La maggior parte delle case e dei palazzi si addensavano nell’angolo in cui il sole, ogni mattino, si affacciava dai monti. Pareva che qualcuno avesse sollevato un lembo della spianata e fatto rotolare ogni cosa in fondo, come si fa quando si ripulisce la tovaglia dai rimasugli del pranzo. La golf blu scivolava come una briciola di pane verso gli impianti industriali, posti al termine del nucleo abitato. Da lì in poi il lungo viale si trasformava in strada provinciale incuneandosi tra i monti della catena appenninica. Proseguendo si sarebbe entrati nella stretta vallata ricavata con tigna dal fiume Nera a cui si congiungeva, grazie a tre salti spettacolari, un altro corso d’acqua. Se la città aveva un minimo di risonanza la si doveva alla Cascata e all’Acciaieria, a ben vedere non molto. Centosessantacinque metri di schiuma bianca e frastuono a quattro chilometri di distanza da nubi giallognole e frastuono. Un riassunto sbrigativo, ma efficace.
Natale Passagrilli, quarantanove anni, trenta dei quali passati in mezzo ai fumi della fabbrica, se ne stava con il naso a un palmo dal cruscotto. Colpa del freddo invernale che aveva appannato il vetro e ghiacciato il volante. Lo teneva con due dita quasi fosse bollente. Il riscaldamento a palla della golf agitava il ciuffo sulla fronte stempiata senza dare giovamento al guidatore. Anzi, gli sembrava di stare a viaggiare con i finestrini aperti. Regolò la manopola e abbassò il flusso in attesa dell’aria calda. Nel frattempo gli arrivò odore di olio motore e piscio di gatto. Alle cinque e mezza della mattina uno ci mette tutta la buona volontà per far girare le cose a verso. Difficile riuscirci se devi fare il turno 6-14 e ti prepari la colazione quando c’è chi deve ancora andare a dormire. Era la normalissima sveglia di un povero disgraziato: un caffellatte bevuto di corsa, il tempo di inzupparci un po’ di biscotti, reclamizzati da quella famiglia sempre felice, in una casa bianca, in campagna. Quanto gli stavano sui coglioni certe pubblicità, con i protagonisti finti quanto i denti della suocera. E sì, pure per Natale Passagrilli era lo stesso inizio di giornata: da solo, come un cane, mentre il resto della famiglia se ne stava nel letto ancora per un bel po’. Aveva poggiato la caffettiera nel ripiano del lavabo, insieme al pentolino e al cucchiaino per lo zucchero; buona parte degli oggetti della cucina era di acciaio 18\10, grosso modo dello stesso tipo prodotto di lì a poco in fabbrica. Era lo strano legame tra Terni e questo materiale: inossidabile, da oltre cento anni. Tanti oggetti che utilizzava mezza Italia erano partiti anni prima da un forno e del rottame, e ora vivevano una vita propria dopo essere nati in questa città. Se la nazione voleva acciaio Natale si doveva sbrigare, fortuna che il traffico prima delle sei è inesistente, fili via tra strade e incroci come un ragno nella tela, unico vantaggio della sveglia anticipata. Prova a passarci alle otto, tra bus e studenti accompagnati a scuola in macchina, la lenta processione fa spiccar giù tutti i santi del calendario a chi è in ritardo e ha fretta. Invece prima dell’alba non ce n'erano di altri sfigati in giro, a parte chi attaccava di primo turno. A dire il vero, mentre sgusciava accanto alla grande pressa, messa lì a simbolo della industriosità del popolo ternano, aveva visto due tizi, appiccati su di una cella, a piazzare gli addobbi natalizi. Beh, era proprio vero: trovi sempre qualcuno che sta peggio di te.
Natale se ne stava davanti all’armadietto, seduto sullo sgabello, il piede poggiato sull’altra gamba, cercava di infilare il laccio nell’occhiello dello scarpone. Valentino, della squadra smontante, lo distolse dall’operazione. «Natà, ti cerca il capo. Ha detto se prima di attaccare passi dal suo ufficio.» «E mo’ questo che vole?» «E io che ne so? Domandalo a lui.» Guardò l’orologio: le sei meno dieci. Era in leggero ritardo. Dopo tanti anni a fare lo stesso lavoro ne hai le palle piene di correre dietro alle lancette dell’orologio. Se c’erano lamentele per il cambio gli venissero a dire qualcosa: quante volte era stato lui a dover aspettare? Nemmeno il tempo di mettersi la tuta e s’era già stranito. Entrò dentro l’ufficio senza bussare. Fece un passo, la mano rimase sulla maniglia, quasi non la potesse spiccicare da lì. Dalla porta, rimasta spalancata, l’aria gelida si mischiava al tepore della stanzetta. L’uomo seduto dietro il tavolo alzò lo sguardo. « Ah, proprio te cercavo. Entra, e chiudi che fa un freddo boia.» Natale rimase immobile ancora un po’, tanto per rompergli i coglioni. Lui al calduccio a non fare un cazzo e il resto della truppa a battere i denti in balia della perturbazione proveniente dal Mar Baltico. «Sì lo so. M’hanno avvertito. Che c’è che non va?» «Niente, tutto a posto. E chiudi quella cazzo di porta!» Ora erano in due a essersi straniti. Natale si decise a entrare, il clima nella stanza stava tornando normale. «Dicevo, non c’è niente che non va, pure tu Passagrilli, sempre a pensar male.» «Allora se non c’è niente me ne vado, così faccio calà giù l’altro carropontista, altrimenti s’incazza come una stufa.» «Aspetta. Sta’ bono un attimo. Ti volevo chiedere se eri disponibile per questo fine settimana…» Ecco qua, lo sapeva, sotto il tono pacioso si nascondeva una fregatura. «Oh, guarda, io domenica prossima non lavoro. Parlamoci chiaro, per una che me tocca de festa, io non cambio. A me i favori non li fanno mai, eppoi, se me servono, li vado a chiede, non me li faccio cercà dal caposquadra.» «Ehi! Frena, frena. Non parlavo de lavoro. Lo so, fai festa. Appunto per questo. Volevo chiedete se ci dai una mano per rimette in sesto la cometa» «Che cometa vai cercando?» «Come quale, quella de Miranda.»
La Cometa di Miranda, il nome derivava dalla frazione appollaiata in uno dei colli sovrastanti la città, era la risposta di Terni a Gubbio. Quelli s‘erano industriati a fare il più grande albero di Natale del mondo? Qui nel sud della regione avevano pensato – e noi semo da meno? – la risposta era stata una cometa altrettanto da Guinness dei primati: cinquantamila metri quadri d’estensione, ottanta fari e dieci chilometri di cavi elettrici stesi lungo il costone affacciato sulla piana. Sembrava in corso una gara a chi avesse il simbolo natalizio più grosso. Neanche si trattasse di dodicenni in piena pubertà e con la sindrome da righello.
Adesso ci mancava pure la cometa. Natale si affannava sui manipolatori del carroponte con questo pensiero in più. Sotto di lui le persone sembravano muoversi come dentro a un videogioco. Tutto appariva irreale al di fuori dei vetri della cabina, sospesa a trenta metri da terra. Addetto al caricamento dei forni, stava seduto dentro a un gabbiotto attaccato a uno strano catamarano di ferro. Scorreva avanti e indietro su dei binari, all’interno degli enormi capannoni industriali, portando a spasso grosse ceste di rottame, come fossero secchielli di sabbia. Lui se ne stava per ore a svolgere le manovre rituali, così come si recita una preghiera ripetuta troppe volte, senza convinzione, ma ricordandosi a memoria tutte le parole. Stessa sorte sarebbe toccata al suo futuro genero. Era riuscito a imbucarlo nell’ultima ondata di assunzioni. Due anni di apprendistato, niente ferie, nessun rimborso per la malattia, ma l’assicurazione che alla scadenza del contratto, se si fosse comportato bene, il posto sarebbe stato suo. E per quanto riguardava il comportarsi bene, valeva per lo stesso Natale. Dopo tante lotte e sacrifici, tante battaglie per i diritti sindacali, si era dovuto piegare alla sottomissione strisciante dovuta al favore ricevuto. Si era sacrificato a recitare una parte detestata per amore della figlia e lo stress per la cantilena della moglie. «È un bravo fijo, c’ha voja de lavorà. Dopo trent’anni non sarà ora te facciano un favore? Penso te lo meriti, no? Domandare è lecito...» Per non sentire un giorno sì e l’altro pure tutta questa manfrina, Natale si era abbassato a chiedere il favore in nome del fidanzato della figlia. Ci aveva messo di mezzo il delegato sindacale e i suoi diretti superiori. Li aveva fatti parlare con l’Ingegnere a capo della produzione. Così da tre mesi Mattia, il ragazzo di Susanna, era uno di loro. Addetto in sala forno e apprendista operatore al carroponte. Con buona pace di tutta la famiglia, lui escluso.
I conti da pagare incominciavano a presentarsi. Il caposquadra gli aveva chiesto di dargli una mano per sostituire parte dei cavi elettrici della cometa, la stella che avrebbe brillato per più di un mese sopra le loro teste. Un lavoraccio della miseria. Oltretutto roba da rischiare l’osso del collo. Una faticata a trascinare i materiali su sentieri in mezzo al bosco, per di più con questo freddo. Che aveva le palle girate se ne’erano accorti tutti in squadra, non ce la faceva ad agganciare la cesta del rottame. In condizioni normali ci riusciva con la stessa sicurezza con cui la moglie infilava il filo nell’ago. Per tre volte aveva fatto rimbombare il grosso gancio sulla traversa di sostegno, mancando il foro. Al terzo rintocco, dagli altoparlanti dell’interfono, riecheggio uno sfottente: «Ahò, ma stai a batte le campane a morto?» E giù un’altra botta del gancio. Non ci stava proprio di testa, avrebbe fatto meglio a scendere e farsi dare il cambio anticipato. Ma non era da lui. Quanto gli rompeva dover sottostare a certi favori. Pensò a Susanna, ai pochi esami da dare prima della tesi. Pensò alla casa tirata su con enormi sacrifici, pensò al primo piano destinato alla futura coppia di sposini. Doveva rimanere calmo. Però una risposta la doveva. Spinse il pulsante dell’interfono e sparse la sua voce nell’intera campata. «Se proprio pensi sonano a morto, tanto pe’ no’ sprecalle, che possano sonà pe’ te!» E detto questo, agganciò la cesta.
Trentacinque minuti per fare poco più di cinque chilometri. Il tempo guadagnato all’andata se lo giocava al ritorno. Alle due e mezza era però seduto davanti a un piatto di ciriole, diventato un ammasso indefinito di pasta. «A Iolà, lo sai, le ciriole so bone cotte e magnate, se so' attaccate tutte. Che ci dovrei fa co’ 'sto malloppone de robba?» «Me l’ha chiesto il tuo figliolo di fargli le ciriole, gli andavano. E io non me posso mette a fa du’ cotture.» Natale era entrato in cucina, forse ci sarebbe scappata una mezza litigata. Nell’aria l’odore di nocciole e mandorle tostate, sul pavimento erano evidenti i resti dei gusci. Il martello sopra il tavolo gli consigliò di rimanere calmo, erano iniziati i preparativi per i panpepati, meglio girare al largo altrimenti gli sarebbe toccato pure rompere altre noci e nocciole. Ripiegò sulla richiesta di un altro po’ di sugo. Ritornò dalla cucina con il mestolo pieno. Il piatto di pasta aveva assunto forme da ristorante francese, una montagnola informe, scotta e appiccicosa, da cui scendeva una lava di pomodoro. Non aveva fatto in tempo a portarsi la forchetta alla bocca, il suono del cellulare lo richiamò all’attenzione. Se squillava il telefonino non ci si poteva sbagliare: o erano i colleghi di lavoro o i compagni di caccia oppure la figlia. «Pronto?» Era Susanna. Non bastava la pasta appiccicosa. Si era dovuto sorbire le lamentele della figlia. Ma come poteva Mattia dargli una mano domenica se era l’unico giorno in cui riuscivano a stare insieme? «Dai papà, lo sai, c’è anche la partita al pomeriggio, giocano contro la prima in classifica…» Non c’era niente da fare, era una questione genetica, era nato per tribolare. Aveva messo via il telefonino consapevole di doversi accollare il cavo elettrico tutto da solo. Sarà stato pure un bravo ragazzo Mattia, ma in quanto a voglia di faticare, non era il massimo. A parte il calcio non conosceva altri modi per farsi venire il fiatone, e si parlava di campionato di seconda categoria regionale mica di Beckham o Ronaldinho. Gli balenò l’assurda idea di chiederlo al figlio. Gli passò subito, bastò un’occhiata al pupo disteso a masturbare il palmare. Aveva il suo osso, meglio non disturbarlo. Cosa mai ci avrebbe fatto con il suo aiuto? Gli occhiali da sole D&G, infilati tutto il giorno, e i pantaloni calati giù, sempre sul punto di finirgli alle caviglie, non si addicevano a determinati lavori, avrebbe corso il rischio di spettinarsi. No, se ne restasse a giocherellare al cellulare, avrebbe sistemato la faccenda senza l’aiuto dei ragazzi. Tanto per cambiare.
La foschia mattutina non sembrava avesse intenzione di diradarsi. La macchia pullulava di sagome informi, si materializzavano all’improvviso, una dietro l’altra, lungo il sentiero che si inerpicava fino al punto stabilito. Il cavo elettrico pesava quanto un accidente, manco fosse un pitone gigante. Lo portava a tracolla al modo della fascia di miss Italia. Arrancava ma non cedeva di un passo. Prima avrebbe finito il lavoro e meglio sarebbe stato. Per tutti, in particolare per Mattia. Una volta arrivati sul posto il lavoro non presentava problemi. I cavi da sostituire erano già segnati. Partecipavano alla spedizione sei, sette persone, ognuna aveva un parente coinvolto, e ovviamente assente. Pareva una riunione di parenti delle vittime di un disastro aereo, accompagnati sul luogo della disgrazia. Si guardavano negli occhi, sconsolati, senza dirsi niente. Ognuno di loro aveva un pensiero nei confronti di chi li aveva costretti a essere lì: un figlio, un nipote, oppure, come nel suo caso, il futuro genero. Fu il momento più triste della giornata. La squadra di elettricisti improvvisati era stata formata per garantire il perfetto funzionamento dell’impianto di illuminazione. Si erano accorti in ritardo di un malfunzionamento di alcuni fari che formavano il disegno della cometa. Le operazioni sarebbero andate avanti a oltranza. L’otto dicembre tutto avrebbe dovuto funzionare alla perfezione. Il sindaco, la banda e la città intera si aspettavano l’accendersi, davanti ai loro occhi, della cometa più grande del mondo. A metà pomeriggio, completata la manutenzione all’impianto, Natale era sì stanco ma soddisfatto.
La successiva settimana era scivolata via liscia, senza intoppi. A parte il venerdì in cui Natale era andato a cogliere l’oliva dal suocero, proprietario di un centinaio di piante appena fuori città. Ordinaria amministrazione familiare. Oliva colta, tortellini nel congelatore, panpepati nella credenza pronti a prendere il largo al prossimo giro di parenti. Andava davvero alla grande per Natale. Domenica e lunedì, per il ponte dell’immacolata, faceva il turno 14-22. In fin dei conti un orario rilassante. Non doveva andare da nessuna parte, avrebbe risparmiato i soldi per la gita fuoriporta. L’inizio del periodo delle festività non sembrava lo spauracchio tanto temuto. Non fosse stata per la chiamata di domenica sera. Se ne stava in cabina di controllo, per la pausa, l’addetto forno si era sollevato dalla sedia subito dopo aver alzato la cornetta. «Passagrilli, ti vuole il capo reparto.» Natale si era avvicinato al telefono, sotto l’occhio attento dei presenti, tutto serio nel silenzio generale. La conversazione tra i due poteva riassumersi nell’ingegnere che parlava e Natale ogni tanto a ripetere «Sì.» Dopo aver riagganciato se ne era rimasto incupito senza dire nulla. «Passagrilli, tutto a posto?» «Sì.» Non aggiunse altro. Prese la borsa con le sue cose, si mise la giacca della tuta e si avviò verso il carroponte. Il motivo del gelo calato nella mente di Natale era nella richiesta fattagli dal capo reparto. L’indomani si era dato da fare per cambiargli turno, doveva fare il primo in modo tale da potersi liberare nel pomeriggio. Al momento dell’accensione della stella Cometa era stata richiesta la presenza di qualcuno a verificare il corretto funzionamento. Lui era uno dei volontari prescelti. Quel figlio di puttana non se l’era sentita di farglielo dire dal caposquadra, per paura di un rifiuto. Finì il turno e rientrò a casa. Non accese neppure il televisore per vedere le immagini dei gol della domenica. Si mise subito a letto, quasi avesse quaranta di febbre. Tra poco più di sei ore si sarebbe dovuto preparare per tornare in fabbrica. La moglie, ormai avvezza a certi comportamenti, non gli chiese nessuna spiegazione. Prese atto del riposo anticipato, si infilò sotto le coperte e spense la luce. Prima di addormentarsi le sembrò che dalla parte del marito uscisse una nenia indistinta, una specie di brontolio, come quando metteva a lessare una pentola di broccoletti. Strano a dirsi ma quel suono fu conciliante al suo sonno.
Come poter dare conforto a un povero cristo costretto, nel giorno di festa, a starsene imbacuccato come uno sherpa tibetano, in cima a un costone, ad aspettare l’accensione di ottanta fari della potenza di mille watt? Considerando la sveglia alle cinque, le otto ore in fabbrica, un boccone al volo per pranzo, il chilometro e mezzo di sentiero in mezzo al bosco, non esistevano molte parole di conforto. Solo silenzio, null’altro. Così come se ne stavano tutti, nell’attesa che il primo cittadino avesse pigiato quel cazzo di pulsante e dato via ai festeggiamenti natalizi. Un altro quarto d’ora e la cometa avrebbe finalmente brillato. Natale batteva i piedi in terra, le mani tra di loro, i denti pure. Era un freddo della madonna. Non per niente erano quasi le diciotto dell’otto dicembre. Il gruppetto di persone, i soliti noti, se ne stavano come pastori in attesa dell’Avvento, richiamati dalla stella. Fu un istante, e si presentò il dramma. Il clima gelido, la giornata iniziata troppo presto, il pasto consumato in fretta e furia, il nervoso, magari l’insieme di cose. Mezza città se ne stava con il naso all’insù in attesa dell’accensione della Cometa di Miranda e Natale Passagrilli se ne stava piegato in due per i dolori di pancia. Una fitta terribile allo stomaco. Sopraffatto dallo sforzo, per evitare di farsela nelle mutande, fece alcuni passi fino al primo cespuglio, in disparte dagli altri. Si tiro giù i pantaloni e andò di corpo come poche altre volte gli era capitato. Fortuna in tasca aveva il Corriere dell’Umbria portato dietro per ingannare il tempo, riuscì a contenere i danni per la violenta esplosione di diarrea. Mentre se ne stava a usare la pagina della cronaca di Perugia nel modo che più gli occorreva, il Sindaco dal basso schiacciò il pulsante e diede fuoco alle polveri. Sarà stato lo spavento o l’imbarazzo per la posizione con cui aveva accolto l’accensione della stella cometa: si fece prendere dal panico. Si alzò di scatto, si tirò su i pantaloni e cercò di riguadagnare una posizione più degna. Nella foga di uscir fuori dal cespuglio, riassettandosi la maglia e la camicia, il bottone della tuta cedette. I pantaloni gli scivolarono giù in piena corsa, inciampò negli stessi e rotolò per il costone di roccia. Quando gli applausi riempivano Piazza della Repubblica, soddisfatta per l’accensione della cometa, l’urlo di Natale Passagrilli si disperdeva nella macchia di Miranda. Ci volle una squadra speciale del soccorso CAI, supportato da alcuni membri del locale gruppo speleologico, per tirar su il povero Natale. In fondo gli era andata bene. La lastra aveva evidenziato la frattura di tibia e perone. Le conseguenze della caduta, oltre a ecchimosi varie, erano le seguenti: quaranta giorni di gesso e una settimana di notorietà sulle cronache locali, tg compresi. Da mettere in preventivo trenta giorni di riabilitazione e svariati mesi di prese per i fondelli per Natale Passagrilli ribattezzato: il Cometa. Il suo nome, all’interno dell’acciaieria, era già leggenda.
Natale se ne stava nel suo letto d’ospedale, la gamba appiccata per aria. Era un continuo via vai di amici e parenti. Strano a dirsi eppure si sentiva bene, gli piaceva stare al centro dell’attenzione. Se non altro aveva le premure da parte di tutti. Era riuscito a vedere il figlio negli occhi, chissà quale forza lo aveva sospinto a non mettersi gli occhiali da sole. Sembrava quasi normale, pure i capelli erano in ordine. Mattia e Susanna, forse in debito con la coscienza, avevano rivelato il progetto tenuto nascosto: il quattordici febbraio avrebbero fatto solenne promessa di matrimonio nella Basilica di S. Valentino e sarebbero convolati a nozze il prossimo settembre. La moglie Iolanda gli aveva portato di straforo un piatto di ciriole e mezzo panpepato. Natale sembrava davvero felice. Non si risparmiò una battuta che fece sorridere la famiglia, riunita intorno a lui. «Ci mancano solo le lenticchie, lo zampone c’è già.» Fuori dalla finestra del reparto ortopedico la Cometa di Miranda brillava nella sua bellezza, ora visibile nell’intera conca ternana.
G Vanderban
Edited by VdB - 19/12/2008, 09:33
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