APPUNTAMENTO A MEZZANOTTE
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APPUNTAMENTO A MEZZANOTTE

di Grazia Gironella - circa 23000 battute

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  1. tar-alima
     
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    APPUNTAMENTO A MEZZANOTTE

    di Grazia Gironella


    Prevedere il futuro. Schivare le trappole e i trabocchetti di cui la vita di tutti i giorni è così prodiga, e chissà, fare il colpo grosso e lasciare tutti quelli che ti conoscono con un palmo di naso. Parlo di una vincita alla lotteria, o la partecipazione a un megaquiz televisivo; cose così, che ti sistemano a vita. Nella mentalità comune, si può immaginare qualcosa di meglio? Fino dall’antichità si sono dati un bel daffare per arrivarci, tra oracoli e sibille, e ancora oggi parecchi ci campano alla grande, sfruttando la credulità dei gonzi in circolazione.
    Se ci penso, mi sembra strano essere entrato a far parte di questa folla di assatanati; sono sempre stato un tipo concreto, e ciò che non comprendo a fondo m’inquieta, più che affascinarmi. Eppure è accaduto, senza che ne avessi né colpa né merito.
    Il mio dono - chiamiamolo così - si manifestò per la prima volta quando avevo sei anni. I bambini certe cose le prendono con filosofia: invece di lottare contro ciò che è, come noi adulti siamo soliti fare, loro si impegnano per accettarlo, magari inventandosi teorie fantasiose, ai limiti del surreale, se nessuno li aiuta a capire.
    Quando dissi a mia madre, con le mie parole vacillanti, che a scuola avevo schivato il pugno di un compagno perché avevo già visto la scena in sogno, lei sorrise e mi abbracciò. “Ok, tutto normale”, pensai. Se la mamma non ci trovava niente di strano, non c’era di che preoccuparsi. Allora non sapevo quante cose possono celarsi dietro i sorrisi degli adulti: indifferenza, sensi di colpa, ipocrisia, tra le tante; oppure - come in quel caso - assoluta incredulità.
    Per qualche tempo vissi nella convinzione che le mie capacità fossero “normali”, ma quell’idea balzana ebbe vita breve. Perché la nonna sarebbe caduta dalle scale, se avesse previsto che il gradino di legno stava per cedere? Chi sarebbe stato tanto stupido da comprare quella fregatura di ventilatore, sapendo che si sarebbe bloccato cento volte al giorno? Il mondo intorno a me era pieno di “se” rimasti in sospeso: se avessi saputo, se non avessi creduto... In qualche modo che non capivo, io ero diverso; ma molto spesso dovevo anch’io sottomettermi alla legge dei “se”, perché le mie nascenti capacità non erano né costanti, né controllabili.
    Si manifestavano quasi sempre di notte, sotto forma di sogni con un’atmosfera inconfondibile; erano vortici di luci, suoni, sensazioni, che mi risucchiavano per pochi secondi e poi mi lasciavano sconvolto e svuotato, a fissare con gli occhi sbarrati il buio della mia stanzetta. Non sempre però le cose andavano a quel modo; talvolta infatti le visioni mi coglievano da sveglio. In quei casi restavo come fulminato, e crollavo a terra di colpo, e piangevo, o sbavavo, o facevo altre cose sgradevoli che spaventavano a morte chi mi era vicino. Odiavo quei momenti. Già normalmente mi sentivo una bestia rara; non era piacevole leggere sui volti altrui che la pensavano allo stesso modo.
    All’inizio le visioni somigliavano a veri e propri rebus: ne coglievo un aspetto e me ne sfuggivano dieci. Questa imprecisione rischiava spesso di mettermi nei guai con gli adulti.
    Avevo otto anni quando dissi a mio padre che non doveva usare l’auto per andare al lavoro. Lui guardò perplesso prima me, poi mia madre.
    «Devo usare l’auto, Dennis. In pullman ci metto tre ore.»
    «Lo so, ma quella macchina non funziona bene. Non puoi prendere in prestito quella di Fred?»
    «L’auto funziona benissimo. E poi cosa dovrei dire a Fred? “Prestami la macchina perché Dennis non vuole che usi la mia”?»
    Cosa potevo rispondergli? “Certo, devi farlo, perché io so che la macchina avrà dei problemi”? Non mi avrebbe mai creduto; per di più, capii dalla sua espressione che si stava arrabbiando, e questo mi convinse a lasciar perdere.
    Risultato: papà continuò a usare la sua auto, e dopo una settimana ebbe un incidente che lo tenne a letto per un mese con una gamba ingessata. Un problema ai freni, se ben ricordo. Eh già, le mie visioni non erano tanto cortesi da fornirmi giorno, orario e circostanze precise; così mio padre si arrabbiò davvero con me, perché era convinto che senza il mio avvertimento inopportuno avrebbe guidato più sereno, e non gli sarebbe accaduto nulla. Bella gratitudine, non c’è che dire. Magari ora posso capirlo, ma allora il suo comportamento mi parve supremamente stupido; anzi, forse fu la prima volta che mi domandai se quell’uomo coraggioso, forte e intelligente fosse davvero tanto perfetto come lo vedevo.
    Quell’episodio segnò in me un cambiamento. Se prima avevo fatto di tutto perché il mondo riconoscesse i miei “poteri”, era venuto il momento di cambiare tattica. Quello che mi serviva era una gestione razionale di tutta la faccenda; iniziai perciò a classificare le mie visioni in inutili, utili e importanti, e a comportarmi di conseguenza.
    Prevedere che Thomas avrebbe preso un brutto voto in matematica, per fare un esempio, era inutile. Il mio migliore amico era sempre stato un genio in quella materia, e si sarebbe soltanto offeso se lo avessi avvertito, così non facevo nulla; quello scivolone non avrebbe avuto ripercussioni sul suo rendimento scolastico. Lo stesso valeva se l’insegnante di scienze rovistava tutta la scuola alla ricerca della lavagna luminosa quando io sapevo che un gruppo di ragazzi più grandi l’aveva gettata nella discarica. Erano tutti fatti di poca importanza, che in definitiva non cambiavano la vita a nessuno: quindi, perché trovare da discutere e farmi guardare come un mentecatto? Le visioni inutili erano da dimenticare, punto e basta.
    Poi c’erano le visioni utili. Quelle erano numerose, almeno in base ai miei criteri di bambino. Riguardavano tanti piccoli fatti quotidiani: la mamma rinunciava a preparare i miei muffins preferiti per andare al Gerald Store che sapevo chiuso per lutto; la vicina chiudeva male il bidone della spazzatura, senza sapere che i gatti le avrebbero fatto trovare il giardino coperto di schifezze; oppure Fred - il migliore amico di mio padre - si ostinava a scommettere su Whitearrow quando il cavallo stava per azzopparsi.
    In quei casi, la scelta non era semplice. Con le mie previsioni avrei potuto rendermi utile, ma ormai sapevo come stavano le cose: per gli adulti è sensato solo ciò che ha una spiegazione razionale. Non era colpa mia se non ero in grado di fornirla.
    Per questo motivo, con le visioni utili non c’era un comportamento standard: tutto dipendeva dai sentimenti che provavo per la persona coinvolta, dalla voglia che avevo - o spesso non avevo - di sbattermi per toglierla dai guai, e dalle oggettive difficoltà a farlo. Non dimentichiamo che avevo solo otto anni, e molte cose semplici per gli adulti erano ancora al di fuori della mia portata. Quando decidevo di intervenire, comunque, usavo sempre la tecnica del “buttala-lì-per-caso”: alle persone non piace ricevere consigli da un bambino, perciò era opportuno mimetizzare il consiglio in un commento all'apparenza casuale.
    Alla mamma, per esempio, raccontai che al Gerald Store la signora Aldwell era stata borseggiata due volte. Non era vero, ma funzionò: perché mai avrei dovuto inventare una storia del genere? Così lei - che non avrebbe mai creduto alla verità - si bevette tranquillamente la mia bugia, detta a fin di bene, in ogni caso: le avevo pur sempre evitato un giro a vuoto... e fui premiato con una bella indigestione di muffins. Fu un’esperienza davvero istruttiva. Se capivi l’assurdo modo di ragionare degli adulti, manipolarlo diventava un gioco da ragazzi.
    Convinsi Fred a scommettere sui Kansas Lions quella settimana, e lo salvai da un guaio. La signora Grumman, invece, passò la domenica a ripulire il giardino dai rifiuti, e in quel modo pagò il prezzo di avermi sgridato qualche giorno prima perché il pallone era rimbalzato contro il suo muro verniciato di fresco.
    A quel punto, la mia vita era molto migliorata. Nessuno mi diceva più che ero fuori di testa, e mi sentivo quasi un bambino normale. Se i miei amici decidevano di andare in piscina e sapevo che sarebbe piovuto, declinavo l’invito adducendo come scusa un improvviso mal di pancia. Andavo molto più d’accordo con il mondo, ed ero convinto che la cosa fosse reciproca.
    Intanto le visioni continuavano, imprevedibili e spesso oscure; tra l’una e l’altra potevano passare dieci minuti come un mese. Ora che non le temevo più, mi esercitavo a comporre i tasselli del puzzle: tentavo di riconoscere il luogo, per esempio, che poteva essere espresso da un’immagine o da un semplice lampo di luce colorata, oppure il momento, lontano o vicino nel tempo, che influiva sull’intensità delle mie emozioni.
    Alla mia classifica personale mancavano ancora le visioni importanti, fino a quando non ne ebbi una incentrata su mia sorella. Avevo appena compiuto dodici anni.
    Nicole era di cinque anni più grande di me, e a quei tempi frequentava già la palestra da sola e usciva la sera con gli amici e qualche ragazzo. So che sembra incredibile, ma non rammento una singola volta che abbiamo litigato. Tra di noi non c’erano i soliti battibecchi stupidi tra fratelli, in parte perché la differenza d’età era notevole, ma soprattutto - ne sono davvero convinto - perché Nicole era una persona speciale.
    Era davvero carina, con gli occhi verdi e i capelli color miele, ma non se ne vantava affatto; trovava sempre la parola giusta per tirare su di morale le persone che le ronzavano intorno, ed erano davvero tante, sia ragazzi abbagliati dal suo fascino che ragazze desiderose di farsela amica, per non parlare di tutti i tipi strambi che riusciva a tirarsi dietro. Non negava la sua attenzione a nessuno, mai. Questo la rendeva una sorta di faro per tutti quelli che la conoscevano, e io, che la vedevo vivere in famiglia, la trovavo ancora più straordinaria. Quando, in seguito, l’adolescenza bussò alla mia porta e mi ritrovai a lottare contro il demone che mi istigava a mordere ogni volta che i miei familiari aprivano bocca, non potei fare a meno di ricordare che anche Nicole ci era passata, senza mai farla pagare a nessuno di noi. Forse questa consapevolezza mi rese migliore... ma questa è un’altra storia, e non voglio divagare.
    Una mattina, a scuola, senza preavviso la mia mente scivolò nel subitaneo torpore che sempre preludeva a una visione.


    Nicole si prepara a uscire. Vestita a metà, si trucca e canta, come sempre quando l’aspetta una serata interessante. Parla al telefono. Cosa sarà questa occasione speciale? Di nuovo lei, di spalle, al fianco di un ragazzo che non conosco, un tipo alto e magro; indossa una maglietta nera con una mano dalle unghie ad artiglio disegnata sulla schiena. Quella mano... Mi fa schifo. Mi affascina. Non riesco a smettere di guardarla. Mi pare di osservarla al microscopio: le unghie luride e appuntite, una spezzata; le dita contratte, scarne, dalla pelle rugosa. La mano di un cadavere. E poi, un flash dopo l’altro, senza il tempo di capire: un paesaggio balneare. Auto, file e file di auto. Il respiro affannoso di Nicole nel buio. E poi urla, urla terribili, e gemiti che si spengono in un gorgoglio di morte. Dopo, il silenzio.


    Torno nel mondo. Nausea, nausea che mi rivolta le viscere. Sopra di me le facce preoccupate dei compagni di classe e dell’insegnante di matematica. Vogliono chiamare un medico, ma dico no, non c’è bisogno, ce la faccio da solo. Mi alzo barcollando, voglio tornare a casa. Scosso da un tremito convulso, riesco a uscire prima che qualcuno possa fermarmi. Vomito nel cespuglio di bosso vicino al portone e poi mi trascino tra i conati per i due isolati che mi separano da Colver Street.
    A casa non c’è nessuno a quest’ora. Corro nella mia stanza e chiudo la porta con la folle tentazione di spingerci contro il comò e l’armadio, come se una stupida barricata potesse bastare a tenere lontano quello che ho visto. Forse piango o grido o prendo a pugni il cuscino, non lo so nemmeno io. Per me il tempo si è fermato.
    Quando torno tra i vivi, il cielo fuori dalla finestra è color viola crepuscolo, quindi devono essere passate parecchie ore. Mi sento perfettamente calmo, ora; calmo e lucido. Un cervello al lavoro, senza traccia della follia che mi ha preso dopo la visione.
    Nicole è in pericolo. Chi può essere quel tizio con la maglia nera? Non l’ho visto in faccia, e la sua corporatura non mi ricorda nessuno. Ma soprattutto, quando accadrà ciò che ho visto? Non subito - ormai so riconoscere certi indizi - ma quando, di preciso? Devo scoprirlo, devo essere pronto a cogliere il segnale. Maledetti i miei poteri, maledetti, maledetti! Eppure grazie a loro ho la possibilità di salvare mia sorella. Una sola possibilità, come sempre accade nella vita per le cose importanti. Non posso sbagliare.


    I giorni che seguirono furono un lungo, ininterrotto incubo. Vegliavo su Nicole giorno e notte, tempestandola di domande sulle persone che frequentava, sui suoi hobbies, sui suoi gruppi preferiti. Dovevo sembrare un po’ fuori di testa se mia sorella, di solito così paziente, chiese a mia madre di porre fine a quel costante tormento.
    A mia madre - che aveva come sempre le antenne in funzione - non era sfuggito che in casa tirava una strana aria, ma non sapeva davvero dove andare a parare. Quando, tra eufemismi e imbarazzati giri di parole, mi domandò se facessi uso di droghe, quasi mi sarei messo a ridere. Era tutto così peggio di ogni cosa che lei potesse immaginare!
    Sarebbe stato facile scaricare su di lei almeno una parte del macigno che mi portavo dentro, ma non potevo farlo. Il solo pensiero di descriverle la visione mi dava la nausea. Sarei riuscito a farla preoccupare, certo, sempre ammesso che mi avesse creduto. E poi? Avrebbe trascorso notti insonni a domandarsi cosa fare per proteggere Nicole; avrebbe origliato ogni conversazione e atteso il suo ritorno da scuola con il cuore in gola, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, fino a quando il tempo avrebbe diluito l’angoscia e la vita avrebbe ripreso il suo andamento normale. Così vanno le cose. Ma io non potevo permetterlo. Io sapevo. Quando si fosse presentato il momento io, e io soltanto, mi sarei fatto trovare pronto.
    Un giorno - erano trascorse un paio di settimane - Nicole rientrò a pranzo con un’espressione diversa dal solito, una sorta di sorriso segreto di cui non volle spiegare la ragione, lei che di solito con noi era un libro aperto. Subito l’angoscia mi strinse lo stomaco, ma mi diedi dello sciocco; sapevo che poteva essere l’ennesimo falso allarme. Lo stesso la seguii come un’ombra, attento a non farmi notare. Nel primo pomeriggio intercettai una telefonata che parve confermare le mie preoccupazioni: mia sorella parlava del concerto di un nuovo gruppo musicale, in programma per la sera; non con Maggie, la sua migliore amica - cosa già di per sé inusuale - ma con qualcun altro che faceva nascere nella sua voce toni nuovi e misteriosi.
    Nicole non fece parola in famiglia del concerto. Quando nel pomeriggio andò a studiare da un’amica, rimasi in casa a ciondolare senza concludere niente, con la mente in tumulto. Se solo avessi potuto, le avrei impedito di uscire; ma i miei erano solo sospetti, non potevo sconvolgere la famiglia senza uno straccio di motivo. Dovevo pazientare: la sera era vicina, e presto avrei avuto mia sorella di nuovo sotto controllo.
    Fu un brutto colpo quando mia madre, a tavola, ci avvisò che Nicole sarebbe rimasta da Esther per cena e anche a dormire.
    Balzai in piedi con tanta foga che rovesciai la sedia. Masticando vaghe parole di scusa, schivai gli sguardi sconcertati dei miei genitori e dissi che sarei andato subito a letto perché non mi sentivo bene, poi filai nella mia stanza.
    Dovevo trovare Nicole, subito. Con i vestiti appallottolati formai una sagoma che infilai sotto le lenzuola, proprio come si vede nei film, poi me la svignai dalla finestra, aiutandomi con i rami del grande olmo che cresceva in giardino. L’inganno non poteva durare a lungo - di certo mia madre sarebbe passata a vedere come stavo - ma non aveva importanza. L’unica cosa che contava era rintracciare mia sorella e riallacciare quel filo che non poteva, non doveva spezzarsi.


    Per prima cosa, la casa di Esther. Una volta là, dovrò improvvisare. Ma non ho questa fortuna: Esther è in giardino, sdraiata sul dondolo, e legge un libro. Sola. Mia sorella ha mentito. Le cose si complicano.
    Tento con la gelateria all’angolo, senza successo. Corro al Mac Donald’s del quartiere e domando alla cameriera notizie di Nicole, ma al locale non si è visto nessuno della sua compagnia. Lou Anne mi guarda strano; chissà che faccia da pazzo invasato devo avere.
    La quarta tappa è il Farewell Café di nostro cugino Simon. Non sa dirmi dove sia mia sorella, ma dai discorsi di un paio di clienti vengo a sapere che l’evento della serata è il concerto dei Black Devils, un gruppo dark costretto a esibirsi negli scantinati per problemi con la polizia: sesso, droga e violenza, il solito scenario squallido di quel genere di gruppi. Non mi è difficile scoprire che il concerto “segreto” sarà al vecchio magazzino abbandonato Odds, nella periferia est della città.
    Guardo l’orologio. Segna le ventidue e quarantacinque. Quel genere di manifestazioni non inizia mai prima di mezzanotte, lo so; e so anche che il magazzino ha un’unica entrata. Aspetterò Nicole al varco, e poi... Non so, non riesco a pensarci. C’è appena il tempo di fare un’ultima cosa prima di andare.


    È mezzanotte e cinque quando mi apposto fuori della porta sgangherata del capannone. I primi spettatori arrivano alla spicciolata, guardandosi intorno, eccitati ma anche intimoriti dalla situazione. Molti di loro passeranno dei brutti guai se i genitori vengono a sapere di questa uscita. Alcuni ragazzi li conosco di vista, ma bado bene a tenere la testa china per non farmi individuare. Non voglio che qualcuno avvisi Nicole della mia presenza; forse deciderebbe di cambiare meta per la serata, e non posso correre questo rischio. Mi sembra strano pensare a lei in questi termini, ma ho stampato ben chiaro nella mente che Nicole oggi ha mentito per essere libera. Chissà se è la prima volta.
    A mezzanotte e mezza la vedo arrivare. Sta con un gruppo di persone più grandi - due ragazzi e una ragazza, tutti tatuati e punteggiati di piercing - e in qualche modo non sembra affatto lei. Non sono i capelli tirati tutti da un lato, o il trucco più pesante del solito, né il maglione che le scende sbilenco dalla spalla. Credo siano i gesti e il modo di parlare, che non sembrano appartenerle; o forse sono tutte queste cose insieme.
    All’entrata del magazzino il gruppo rimane qualche minuto a discutere. Uno dei ragazzi fa un gesto seccato e la ragazza al suo fianco si volta a sputare con aria disgustata, poi i due entrano, mentre Nicole e il ragazzo più magro si allontanano in direzione del parcheggio immerso nel buio. Sulla schiena di lui vedo balenare il disegno lucido di una mano ad artiglio.
    Li seguo, mantenendomi a una certa distanza, con il cuore che batte all’impazzata. Adesso sì, ho paura. Se salissero in macchina? Non posso certo sgusciare sul sedile posteriore senza che se ne accorgano. Partirebbero, e io rimarrei lì a guardare la macchina allontanarsi, da quello stupido che sono, e non potrei fare più niente per Nicole, se non piangere e pensare che non la vedrò più, viva. Perché io so che andrà così, ne sono certo come sono certo del tremito che mi fa battere i denti.
    Arrivati alla macchina, però, mia sorella e il suo amico non salgono come temevo, ma si fermano a parlare. Dal mio nascondiglio dietro i resti di un chiosco di giornali non riesco a sentire bene cosa dicono; mi arrivano solo le sillabe più sonore e qualche risatina di mia sorella. La luna si sta alzando, però, e intravedo le loro sagome.
    Il tempo scorre, lento e vischioso, mentre gli ultimi seguaci dei Black Devils si dirigono verso il magazzino e spariscono dietro le sue porte anonime. Alla fine il parcheggio rimane deserto; siamo rimasti solo Nicole, lo sconosciuto e io. Ho smesso di tremare, ma la mia calma è solo un’illusione: quando all’improvviso il compagno di Nicole alza la voce, sobbalzo con tale violenza che quasi perdo l’equilibrio.
    «... e allora cosa cercavi? Cosa credevi di trovare?»
    Silenzio, poi la voce esitante di Nicole. «Perché ti arrabbi adesso? La mia non era una critica...»
    «Non era una critica, stronzetta? E cos’era allora? Come la chiamano quelle come te?»
    «Ma... niente, non era niente. Il concerto mi interessa, tutto qui...»
    Vedo mia sorella saettare con lo sguardo a destra e sinistra, mentre il ragazzo le si fa più vicino. Forse solo in questo momento Nicole si rende conto di trovarsi in una situazione pericolosa, da sola in quel parcheggio buio con uno che conosce appena.
    «Sai cosa ti dico?» La voce si è fatta più roca, il tono sprezzante. «A me interessano altre cose, invece. Cose brutte... cose che le signorine per bene come te nemmeno immaginano.»
    I miei sensi si acuiscono di colpo. Adesso ogni parola risuona chiara nel buio. Mi sembra persino di sentire il puzzo dell’alito di quel figlio di puttana che sta addosso a mia sorella, mentre lei cerca di divincolarsi... ma non di fuggire, non ancora. Forse spera di farlo ragionare, perché in fondo è lì da sola con lui, e chi la tirerà fuori dai guai se le cose si mettono male?
    Pochi istanti e la situazione precipita. Il ragazzo le ringhia in faccia una raffica di insulti, poi lo vedo armeggiare con la cintura, mentre lei supplica: «No, no, ti prego... Ti prego, non dirò niente... Non farmi male...»
    Nicole tenta la fuga verso il magazzino, ma riesce a fare solo pochi passi che lui la afferra per un braccio e la trascina verso i cespugli. Lei grida, un grido di paura e dolore, che si spegne in un mugolio quando lui le mette una mano sulla bocca. Ora Nicole lotta, si dibatte con tutte le sue forze. Vedo il groviglio dei loro corpi contorcersi nell’oscurità, scivolare a terra.
    «Sei solo una troietta come le altre, principessa... Ti farò vedere come si comporta un vero uomo.»
    Annaspa con gli abiti di Nicole, che si contorce sotto di lui, terrorizzata. Un gemito e l’imprecazione che segue mi fanno capire che lei deve averlo morso. Il suono sordo di un pugno, poi nella mano di lui qualcosa luccica debolmente alla luce della luna.
    Solo adesso mi rendo conto che questa è la scena della mia visione. È tutto lì: le auto in fila, sullo sfondo il cartellone che pubblicizza una località di mare, la furia di quel pazzo che ha già raggiunto il punto di non ritorno e il tagliacarte con cui infierirà sul corpo di Nicole per poi lasciarla agonizzante sulla ghiaia del parcheggio.
    Le mie mani sono rimaste contratte nelle tasche tanto a lungo che quando vado per muoverle reagiscono a fatica. Faccio qualche passo verso Nicole e il suo aguzzino, gli orecchi pieni dei gemiti di lei. Alzo la pistola, prendo la mira. Con freddezza assoluta, attendo di veder balenare la mano artigliata sotto la luce della luna, e sparo. Un grido soffocato nel buio. Non mi trema la mano, non temo di colpire lei. È come se tutto fosse già accaduto, nella mia mente, non una ma mille volte. Sparo di nuovo sulla forma crollata a terra e attendo il suo ultimo sussulto, mentre Nicole si trascina verso di me, scossa da singhiozzi isterici. Sono pronto a sparare ancora, se serve; ma non ce n’è bisogno. È tutto finito.


    La polizia arrivò pochi minuti dopo, pronta a disperdere un raduno non autorizzato e a far passare una brutta notte ai Black Devils e ai loro fans. Trovò invece tre sconosciuti nel parcheggio: un ragazzino in piedi, con lo sguardo fisso nel vuoto e una pistola in mano, e una ragazza sconvolta che lo abbracciava come se non volesse più lasciarlo andare; pochi metri più in là, un cadavere. Una sorpresa niente male.
    Scoprii dai giornali che Alex Whitman era ricercato in due stati perché sospettato di cinque omicidi, tutte ragazze dell’età di Nicole. Dovetti raccontare molte volte - prima agli investigatori e poi ai giornalisti - come mi ero procurato la pistola dalla vedova Craig. La vigilia di Ognissanti di qualche anno prima, io e i miei amici avevamo bussato alla porta di quella vecchia ubriacona, ma invece di ricevere dolciumi l’avevamo vista tirare fuori l'arma da una scatola in cucina. Mentre la vecchia berciava insulti e sventolava verso di noi il revolver con aria minacciosa, ci eravamo dispersi come foglie nel vento invernale, ridendo spaventati. Chi avrebbe mai immaginato che qualche anno dopo avrei attirato fuori casa la vedova Craig con uno stratagemma e le avrei sottratto la pistola per salvare mia sorella?
    Io e Nicole non abbiamo mai riparlato di quel giorno. A me basta vederla vivere per ricordare che non ho fallito con la mia unica visione importante.
    A proposito: le visioni cessarono, improvvisamente come erano arrivate. Spesso mi sono chiesto se tutto non fosse stato architettato al solo scopo di farmi arrivare puntuale all’appuntamento con il destino di Nicole, quella sera. Chi può dirlo? Non a tutto si può dare una spiegazione razionale...
    Ieri sera ho chiesto a mio figlio - quindici anni, scarpe slacciate e auricolari murati nelle orecchie - se gli è mai capitato di avere un sogno premonitore. Mi ha guardato storto, poi si è fatto una bella risata.
    «Vuoi sapere se prendo della roba? Dai, papà, lo sai che non faccio cazzate del genere.»
    Si è allontanato che ancora rideva. Ho riso anch’io, e mentre ridevo ho incrociato la mia immagine nello specchio dell’ingresso.
    Niente male, Bill. Niente male.
    Se questa è la mia realtà, posso anche fare a meno delle visioni.



    Edited by tar-alima - 9/11/2008, 18:15
     
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  2. beatrix_w
     
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    Ciao ^_^ Il tuo racconto mi è piaciuto tantissimo, non ho staccato per un secondo gli occhi dallo schermo.
    SPOILER (click to view)
    L'unica cosa che ho trovato strana è il sangue freddo mostrato verso la fine (non dico di più per non rivelare a chi leggesse il commento, se non è chiaro scrivimi pure via mp ^_^
    La trama e lo stile sono molto coinvolgenti. Voto: 4
    Ciao,

    Stefania
     
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  3. shivan01
     
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    User deleted


    Bello, Grazia

    un paio di note
    SPOILER (click to view)
    un po' lento nella parte iniziale, che racconta benissimo la storia del protagonista ma mettendoci forse un po' troppo tempo
    non ho capito perché passi al corsivo, a un certo punto.
    Occhio che la parola "pistola" ricorre con troppa frequenza nella parte finale.


    comunque troppo poco per non darti 4
    brava come sempre
     
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  4. tar-alima
     
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    Grazie, che bell'inizio! Mi consolate del secondo turno della Royal Rumble mancato per un punto... <_<

    beatrix:
    SPOILER (click to view)
    La freddezza gli viene dal fatto che, dopo aver avuto la visione, non ha mai smesso di prepararsi a quel momento, anche se inconsciamente.

    Nicola:
    SPOILER (click to view)
    Con il corsivo segno il passaggio dal passato remoto al presente, sempre in prima persona. Do un occhio al fatto della pistola, grazie.
     
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  5. federica68
     
    .

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    Ciao Grazia
    che bel racconto!
    Lo stile è superlativo come al solito, e stavolta anche la storia c'è tutta

    se proprio devo esprimere perplessità, sono sul tenore delle visioni minori... mi sembra poco verosimile che un potere del genere si scomodi per dire che il ventilatore nuovo si romperà subito o che il negozio è chiuso, quest'ultimo fatto anche in rapporto al fatto che dici che il protagonista non sa quando si avvereranno i suoi presentimenti, perciò il negozio potrà essere chiuso fra un mese e non oggi che la mamma deve fare i muffins...


    ma tutto questo è giusto per trovare il pelo nell'uovo, un 4 pieno non te lo toglie nessuno!
    bravissima
     
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  6. niwad
     
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    Bel racconto, sia per stile, che per forma che per storia. 4
    Piccole accortezze che ho notato:
    CITAZIONE
    Era tutto così peggio di ogni cosa che lei potesse immaginare!

    brrr, girala in qualche altra maniera, 'sta frase
    CITAZIONE
    Quando si fosse presentato il momento io, e io soltanto, mi sarei fatto trovare pronto.

    la posizione della prima virgola non è il massimo.
     
    .
  7. VdB
     
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    Il mio voto è quattro.
    Mi unisco alle parole di elogio degli altri, qualche appunto:
    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Se ci penso, mi sembra strano essere entrato a far parte di questa folla di assatanati; sono sempre stato un tipo concreto, e ciò che non comprendo a fondo m’inquieta, più che affascinarmi. Eppure è accaduto, senza che ne avessi né colpa né merito.

    L'incipit lascia intendere che qualcosa ha sconvolto il modo di pensare del narratore, in merito alla preveggenza, leggendolo così sembra che abbia avuto una vita normalissima, fino al momento della rivelazione, poi però si scopre, subito dopo:
    CITAZIONE
    Il mio dono - chiamiamolo così - si manifestò per la prima volta quando avevo sei anni.

    Mi pare poco coerente. Il tipo è stato segnato dall'esperienza che gli ha cambiato la vita, ci è cresciuto con certe consapevolezze, allora perchè far intendere che si fa prendere anche lui dalla foga per entrare nel club degli acchiappa-fortuna solo in un secondo tempo? Non so se sono stato abbastanza chiaro, spero di sì.
    Io avrei visto un incipit che mettesse in risalto il tono di uno che il jolly se lo è giocato (e bene) a suo tempo, senza dare troppe indicazioni, ma a mio avviso l'inizio è fuorviante rispetto alla trama successiva...
    Per il resto il mio quattro ci sta perchè è davvero narrato bene, anche se l'happy-end lo davo un po' troppo per scontato... ;)
     
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  8. esimon
     
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    davvero un bel racconto. Niente da dire, complimenti! -_-
    Fallo girare.
    Voto 4 :)
    Simone
     
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  9. tar-alima
     
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    Contenta che vi piaccia. Qualche spiegazione su quello che mi avete fatto notare:

    SPOILER (click to view)
    Fede: Le visioni non c'entravano con la scala; era solo un esempio di quello che Bill vedeva succedere intorno a sé.
    Per i muffins, invece, lui ha la visione ma non sa ancora quando si verificherà; il giorno in cui sua madre gli dice che non gli preparerà i muffins perché vuole andare al Gerald Store, allora lui riconosce l'episodio.

    niwad: Lo so, quella frase non è granché. "Peggio" andava in corsivo, e l'ho cambiato, ma non risolve certo il problema. Ci penso.

    VdB: I poteri del protagonista sono durati per pochi anni. Credo che, ripensandoci a posteriori, lui possa vedere quel periodo come un'"eccezione" al suo essere un tipo concreto. Comunque ho capito cosa intendi.


    Grazie a tutti. :)
     
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  10. kiwi65a
     
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    Ottimo e abbondante, come sempre. Solo una piccola osservazione:
    SPOILER (click to view)
    Mi sembra un po' fuori luogo il fatto che un ragazzino di otto anni riesca ad avere un approccio così razionale alle sue visioni da dividerle in tre categorie ed affrontarne le conseguenze.

    Questo è tutto quello che ho trovato. E' poco, giusto per non prostrarmi davanti alla tua incontestabile bravura!
    Complimenti. Quattro.
    Ciao
    Piero
     
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  11. tar-alima
     
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    Piero, non conosci mio figlio! ^_^
     
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  12. x_LUIS_x
     
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    Scritto assai bene, complimenti!
    Ho solo avuto l'impressione (detto dal basso in alto, eh!) che fosse leggermente prolisso in alcuni punti (specie nella parte iniziale).
    Poi la storia, seppur gestita assai bene (molto bene, anzi), mi è parsa un po' prevedibile.
    Se lo fosse stata leggermente di meno avrebbe meritato un 5 e non un 4!
    Ma è anche colpa mia: mi aspetto sempre di trovarmi "ta-tan!" una sorta di colpo di scena finale, specie quando le premesse sono "standard" (leggi le facolta paranormali di preveggenza applicate in un contesto).
    Si tratta di sfumature. Per me varrebbe tra il 3 e il 4! Ci vorrebbero i mezzi voti!. Che faccio?
    Mmmmmmmm! Vada per il 3, dai!
    Ti confesso che ero così indeciso che ho lasciato la soluzione alla monetina! :lol:
    Eh, mi dispiace! :lol:
    Un salutone!

     
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  13. stefko01
     
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    Brava, come sempre.
    Impeccabile la fluidità e la leggibilità.
    Racconto godibilissimo.
    La trama tiene, nonostante qualche incongruenza già evidenziata da altri commentatori.

    L'unica nota aggiuntiva che mi viene: perché i nomi e l'ambientazione americana? Ci egemonizzano su tutto, almeno che i nostri racconti, se possibile, siano italiani fino in fondo. Naturalmente quando qualcuno di noi diventerà un vero scrittore, allora per internazionalizzare la sua opera tutto sarà lecito...

    Ah, il voto. Tra il 3 e il 4, questo mese arrotondo per difetto (perché non hai bisogno di aiuti...)

    A rileggerti,
    Ste.
     
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  14. tar-alima
     
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    Grazie a tutti di avermi letta, intanto.

    Luis: Eh già, lo so che molti amano il colpo di scena, come so che il lieto fine sta sulle scatole a parecchi.
    Il problema è che io non cerco il famoso sussulto, quando leggo; lo apprezzo, in certi casi, se è ben costruito e il contesto è valido; ma il "colpo finale" non lo considero un valore in sé.

    Stefano: Ti ringrazio per l'osservazione sull'ambientazione americana, che solleva un argomento interessante.
    Mi viene da dire: perché no? Sì, ho già letto pareri più o meno autorevoli che considerano questa caratteristica sufficiente a scartare uno scritto, ma non mi trovo affatto d'accordo.
    Se io sono in grado di costruire per la mia storia uno sfondo giapponese, perché conosco quella cultura a sufficienza, cosa mi deve impedire di ambientare il mio racconto in Giappone? Niente, spero.
    Una storia può svolgersi su Marte ma non a Boston? Mi sembra un "complesso del colonizzato".
    Diverso è se uno riesce a scrivere solo fuori dal suo contesto culturale, magari con incongruenze che lo rendono poco credibile.
    Se è questo il mio caso, mi fa piacere capire in cosa ho sbagliato. In caso contrario... ti ringrazio lo stesso, perché tutti i gusti son gusti! ;)
     
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  15. stefko01
     
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    Ciao Grazia.

    Mi e' chiaro il tuo punto di vista sull'ambientazione americana o giapponese, ammetto che il mio e' un preconcetto da "colonizzato" come dici tu. Se possibile prediligo narrativa italiana, e' un mio limite, anche se ovviamente non sono assolutista (il libro che ho sul comodino per esempio e' Undici Solitudini di Richard Yates).

    Nel caso del tuo racconto (cito a memoria, scusami, perche' scrivo da uno scomodissimo palmare) ti.faccio due esempi che non centrano perfettamente l'ambientazione:

    - all'inizio il tuo protagonista parla di antichita' e di oracoli e sibille. Tutto e' possibile, ovviamente, anche che si abbia a che fare con un americano con cultura classica (latinista o grecista), ma mi e' sembrata improbabile o quanto meno poco credibile questa considerazione in bocca ad un anglosassone.

    - quando dici del brutto voto in matematica... Io avrei preferito dicessi una F o un E, visto che la loro scala di valutazione e' in lettere.

    Piccole cose ovviamente, ma ce ne sono altre (se vuoi con maggior tempo a disposizione e un PC come si deve te ne posso segnalare altre). Il tutto rende poco credibile l'ambientazione.

    Bacio,
    Stefano
     
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29 replies since 6/11/2008, 22:47   473 views
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