CARTA D'IDENTITA'
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CARTA D'IDENTITA'

di Grazia Gironella - battute 22.000

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  1. tar-alima
     
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    NUOVA VERSIONE! E grazie a tutti. image


    VITA VERA, ATTO SECONDO


    «Sono spiacente, signora, ma non è possibile.»
    L’impiegata mi rivolse un sorriso contrito. Era perfetta: gentile ma ferma, proprio come si richiede alla sua professione. Le avrei dato un dieci, se non mi fosse toccato fare le spese di quella fermezza.
    «Non è possibile? E perché mai?»
    «Vede, in quanto casalinga lei non è titolare di reddito, quindi non può avere una carta di credito.»
    Casalinga. Che schifo di definizione. Una specie di nullatenente patita dei pavimenti, una poveraccia con l’unica fortuna di essere sposata a un “titolare di pensione”.
    Avevo la tentazione di alzarmi in piedi e informare la gentile signorina che era titolare di un bel vaffanculo, ma non lo feci. Sono una persona civile, io. Mi limitai a commentare che potevo possedere trenta appartamenti e avere vinto la lotteria, e non per questo la cosa sarebbe figurata sui documenti o avrebbe lampeggiato in fucsia sulla mia fronte.
    Eppure così stavano le cose: finché avevo sgobbato otto ore al giorno su di una scrivania come una schiava del ventunesimo secolo, meritavo la mia bella carta di credito; ora che mi ero licenziata, dovevo ringraziare se mi veniva concesso un misero bancomat. Quasi mi aspettavo di sentirla: “Siamo spiacenti, signora, ma non essendo titolare di reddito lei non può utilizzare il denaro depositato sul suo conto.” Per fortuna sono titolare del mio tempo libero. Non è mica poco.
    Fosse stato solo per la carta di credito, mi sarei fatta due risate; ma c’era dell’altro. Cambiare vita non è facile, tutto qui. E quando le cose si fanno difficili, la nostra subdola psiche mette in atto dei meccanismi che rischiano di cacciarci nei guai. Guai seri.


    Tutto iniziò con il trasferimento, mio e di tutta la famiglia: marito, figlio, cane, mamma.
    Non avevamo un motivo specifico per allontanarci dalla città in cui eravamo vissuti tutta la vita, eppure decidemmo di andarcene. Forse la decisione era maturata a nostra insaputa negli anni; o forse fu un gigantesco colpo di testa, divampato come un incendio da una scintilla minuscola, e tutti i ragionamenti sono soltanto spiegazioni a posteriori. Sta di fatto che un giorno facemmo il punto della situazione: Lorenzo appena andato in pensione, Enrico al cambio tra scuole elementari e medie, seconda casa inutilizzata in quella regione meravigliosa che è il Friuli, mamma desiderosa di vivere in un luogo che potesse regalare qualcosa di piacevole ai suoi ottant’anni.
    E io? Stanca di turni, annoiata di un lavoro che non mi diceva nulla e limitava il tempo trascorso con la mia famiglia, rattristata da un periodo che aveva visto sparire gli amici come le cimici d’inverno. Ero pronta a girare pagina.
    È curioso: per anni pensi che una determinata ipotesi sia improponibile; poi, un giorno, ti guardi allo specchio e ti domandi: “perché no?”. Ed è fatta. A quel punto ti senti come se il destino in persona avesse bussato alla tua porta per offrirti una possibilità di ripartire daccapo. Prima di rifiutare, ci pensi bene. Noi non ci tirammo indietro.
    La macchina infernale del trasloco si mise in moto. Nonostante la fatica, camminavo a un palmo da terra. Una volta presa la decisione, non mi domandai mai, nemmeno una volta, se stavamo facendo la cosa giusta. Se c’è una cosa che ho imparato, è che quando le onde ti portano in una direzione, è meglio cavalcarle che contrastarle. Il grande punto interrogativo era l’adattamento; conoscendo il mio carattere, sospettavo che me la sarei passata maluccio i primi tempi. Mi ero data sei mesi: sei mesi per sentirmi di nuovo io nella nuova sede, senza fare vittime.
    Il fatto è che, quando ci pensi, ti vengono in mente solo i cambiamenti più vistosi - e già quelli si rivelano trabocchetti infernali, ve lo assicuro - mentre non si pensa alle piccole cose di cui si compone la vita quotidiana. Come si richiede la tessera carburante? Dove trovo la mia marca preferita di filo interdentale? C’è un maledetto calzolaio da queste parti? Sono cazzate, lo so. Basta chiedere, informarsi, usare la rete. Eccheccazzo, siamo nell’anno 2008 d.C.! Beh, provate voi a scuotere la vostra esistenza come se fosse una di quelle palle soprammobile con la neve dentro, e poi mi saprete dire che effetto fa.
    Dopo poche pagine di calendario, il primo luglio, arrivammo a Lavarons, ridente cittadina di dodicimila anime ai piedi delle Alpi Giulie. La frittata era fatta.
    Per settimane il caos fu tale da far passare in secondo piano qualunque pensiero, qualunque impressione; c’erano solo liste infinite di cose da fare, e cumuli di pacchi che sembravano intenzionati a vagare nello spazio per l’eternità senza mai trovare una collocazione convincente. Il lavoro in ufficio, al paragone, sembrava più che mai acqua fresca. In quel periodo idraulici, muratori, elettricisti, lattonieri e periti di vario genere ci tennero compagnia ogni giorno, aiutandoci a socializzare, purtroppo a pagamento. Ero frastornata ma felice: il dado era tratto, e a farsi fottere la battuta del brodo. La nostra nuova vita era iniziata.
    Finalmente avevo il tempo di guardarmi intorno senza che la casa mi crollasse in testa. Ero piena di buona volontà, ben disposta verso tutto e tutti, e iniziai a perlustrare il mio nuovo territorio in lungo e in largo, più o meno come fanno i cani, solo senza pisciare contro i lampioni, visto che non mi pareva un buon modo per farmi conoscere.
    Era settembre e la vegetazione esplodeva di verde. A fare da sfondo a ogni cosa, le montagne! Non mi stancavo di guardarle, ed erano sempre diverse: oggi vicine da poterle toccare con la mano, domani remote, o tempestose, o splendenti, in una gamma infinita di sfumature e umori. Ogni mattina vedevo sorgere il sole e sentivo i galli cantare.
    Lavarons era vivace senza essere caotico; gran parte di ciò che serviva, lo trovavi nel raggio di pochi chilometri. Mi piaceva la piazza con la fontana, mi piacevano i bar sul corso, con i tavolini all’esterno sempre affollati di persone che facevano colazione, prendevano l’aperitivo o chiacchieravano con gli amici. Apprezzavo la gente del posto: cordiale, alla mano, poche parole e molti fatti. Anche niente parole e molti fatti, a volte; ma sempre informale e disponibile, il genere che preferisco.
    Adoravo i miei nuovi ritmi: niente levatacce, niente pasti a orari assurdi, niente salti mortali per vedere mio figlio prima che andasse a letto, niente comunicazioni tra coniugi a base di bigliettini. Stop, the end, game over. Una pacchia, giuro. Se non era tutto perfetto, ci andava molto vicino. Così imparai una nuova verità: non c’è niente di più pericoloso della realizzazione di un sogno.
    Mi aggiravo nel mio nuovo ambiente osservando intensamente tutto e tutti, come se volessi carpire i loro segreti. Le mie valutazioni erano quasi sempre positive; era tutto fantastico, persino meglio di quello che avevo immaginato. Ma intanto il tempo passava e io, di quel tutto, non mi sentivo parte; ero come il visitatore di un acquario, che si aggira tra le vasche, ammirando i pesci tropicali e le foche, consapevole che tra un paio d’ore uscirà pensando che sono stati soldi spesi bene.
    Per superare il disagio, uscivo a fare lunghe camminate - una cosa che ha sempre ottimi effetti sul mio umore - e cercavo di cogliere ogni minimo dettaglio di ciò che vedevo: le foglie che mutavano colore, il mormorio del ruscello a lato del sentiero, gli uccelli, gli scoiattoli neri che balzavano da un ramo all’altro e sparivano nel folto. Cose meravigliose, che mi scivolavano addosso senza arrivare al mio cuore. “Sapevo” con la ragione che era un paradiso creato su misura per me, ma... non sentivo niente, come se fossi sotto anestesia. Ero disperata. Dov’erano finite la mia grinta, la mia intraprendenza? Volatilizzate, proprio quando c’era bisogno di loro.
    Solo alcuni particolari riuscivano a bucare la mia scorza: colori, certi odori, canzoni; la morbidezza di un tessuto, il gelo dell’acqua del fiume. Erano sensazioni di un’intensità morbosa, che nel mio deserto interiore spiccavano come elementi a sé stanti, privi di contesto. Il rosso di un geranio poteva farmi piangere, una musica orecchiata per caso mi dava una scarica di adrenalina che per pochi secondi mi faceva sentire invincibile. Un’altra. Non più me stessa. Che sollievo.
    Nel passato non trovavo conforto; avevo bandito i ricordi, gradevoli o meno che fossero. Non volevo sapere com’ero “prima”. Forse non esisteva un “prima”. Strano istinto, quello di annullare le mie radici proprio quando non riuscivo a vedere chiaro nel futuro. Magari la psiche funziona anche così, e un esperto potrebbe confermarlo; io però non volevo saperne di esperti: avevo preventivato sei mesi per adattarmi, ed ero ancora dentro i tempi. Però... un mese può essere lungo un’eternità, a volte.
    Per settimane andai avanti così, fingendo una normalità cui nessuno credeva, io per prima. I goffi tentativi fatti dai miei familiari per migliorare il mio umore non sortivano alcun effetto, e come potevano? Anche Lorenzo ed Enrico erano tra i pesci dell’acquario. Perciò attendevano, e io attendevo. Qualcosa sarebbe successo, prima o poi. Mi sentivo prossima a un abisso, qualche volta a distanza minima di sicurezza, qualche volta sull’orlo. Sarebbe bastato un soffio.
    Una mattina andai a prendere il caffè a un bar che avevo visto nel corso delle mie perlustrazioni. Era una nuova abitudine, quella del caffè al bar la mattina; mi sembrava che creare un nuovo rituale fosse un buon modo per aumentare la mia presa sul mondo. Mi godevo quei cinque minuti, il profumo della bevanda, le voci, le espressioni delle signore che chiacchieravano sedute ai tavolini, sorseggiando la loro cioccolata in tazza. Dietro il bancone la barista - una donna sulla sessantina, molto curata, con l’aria dinoccolata tipica delle persone alte - serviva gli avventori con gesti eleganti.
    «Lei ha un bellissimo sorriso, lo sa?»
    Le sue parole mi fecero l’effetto di una secchiata d’acqua gelida. Rimasi con la tazzina in aria per qualche secondo. «Davvero?» mormorai. Non sapevo cosa dire. Mi sentivo come se, guardando un film in tivù, un personaggio mi avesse chiamata per nome. Forse credevo di essere diventata trasparente.
    «Dico sul serio» continuò lei. «Sono poche le persone che di mattina presto entrano con un sorriso tanto dolce. Di solito la gente ha l’aria più seria, quasi arrabbiata.»
    La conversazione non andò oltre per quel giorno, ma quel piccolo contatto fu l’inizio di una strana amicizia. Alida sembrava una persona riservata, forse anche timida; non riuscivo a immaginare come fosse arrivata a fare quel mestiere. Ogni mattina, come accompagnamento al caffè, scambiavamo qualche battuta sugli argomenti più disparati: una volta era il mercato del lunedì, un’altra le sensazioni comunicate dai fiori - nel bar ce n’erano sempre almeno due o tre composizioni, dislocate nei punti più in vista - un’altra ancora il carattere dei friulani. Si parlava di tutto, una manciata di frasi ogni mattina, badando però a non toccare argomenti troppo personali.
    Per me quel contatto fugace ma quotidiano era un piccolo, importante piacere. Veder sparire dal proprio orizzonte amici e conoscenti può non essere una tragedia, ma comporta una temporanea perdita d’identità: chi siamo noi, lontani dagli sguardi di chi ci conosce? Siamo liberi, sì, liberi dai cliché che imprigionano la nostra persona, ma per diventare cosa? Anche il vuoto è libero. Il rapporto con Alida, leggero come una piuma, era pur sempre la prima crepa nel mio castello di ghiaccio. Chissà se qualcuno sarebbe venuto a salvarmi, alla fine.
    Non dovete pensare che me ne stessi tutto il giorno a piangere sui miei guai. La vita pratica faceva progressi costanti: avevo scoperto come richiedere la tessera per il carburante, e la usavo con disinvoltura. Anche il calzolaio avevo trovato, imbucato in un vicolo vicino alla piazza; era un ometto mingherlino, con gli occhialini da Geppetto e il berretto sempre calcato sulla testa, che lavorava circondato da articoli in pelle di ogni tipo, inclusi giubbotti, stivali neri e cinture con le borchie. Per il resto, avevo dovuto cambiare marca di filo interdentale. Si sa, non si può avere tutto.
    Novembre volgeva al termine. Dalla mia solitaria torretta osservavo con il cannocchiale i piccoli cambiamenti del paese che si avvicinava al Natale: le prime candele dorate in una vetrina, qualche ghirlanda di agrifoglio e nastri rossi, alberelli innevati d’ovatta appesi ai soffitti dei negozi. Non riuscivo a immaginare che effetto mi avrebbe fatto il Natale nello stato d’animo in cui mi trovavo.
    Alida in quei giorni era strana. Qualche volta la trovavo struccata, con i capelli trascurati, lei che di solito badava molto al suo aspetto; certe mattine mi rivolgeva solo un sorriso distratto, che non arrivava agli occhi, e sfrecciava via con il vassoio in mano. Ci rimanevo male, ma non tentai di forzarla a parlare; se sentivo la mancanza delle nostre brevi conversazioni, il problema era solo mio.
    Un giorno entrai nel bar e chiesi il solito. Ero l’unica cliente. Alida mi salutò appena; preparò il caffè macchiato e lo sbatté sul banco davanti a me con tale malagrazia da rischiare di rovesciarlo. Stupita, alzai lo sguardo e incrociai il suo. Da quanto tempo non accadeva? Vidi le rughe agli angoli degli occhi, la piega amara delle labbra.
    «Sono stata operata di tumore al seno, anni fa» mi disse con voce atona. «Adesso hanno trovato altri noduli. Mi è stato anche diagnosticato il Parkinson. Mio marito se n’è andato una settimana fa, la situazione era diventata troppo pesante per lui. A fine anno lascio il lavoro, voglio avere un po’ di tempo per me.»
    Rimasi gelata da quelle poche frasi dette in tono tanto pacato. “È uno scherzo” ricordo che pensai “e a questo punto dovrei ridere.” Non vi sembra uno scherzo? Quando mai accade che tanti colpi della sorte si abbattano sulla stessa persona? Mai. Oppure succede? A chi? Magari a persone normali... persone come noi?
    Uscii dal bar dopo avere farfugliato qualcosa. Guidai come in sogno fino a casa, e vissi il resto della giornata come un automa: andai a prendere mio figlio a scuola, feci i lavori di casa, mangiai, risposi in modo più o meno sensato a tutto ciò che mi venne chiesto, sempre con quel chiodo conficcato nella mente: com’è possibile? Come fa una persona a svegliarsi una mattina e scoprire che la vita le è crollata addosso? Peggio: che le rimane solo un mozzicone di vita, con il conto alla rovescia già in corso?
    Questa grande tragedia congelò la mia piccola tragedia personale. Vecchio concetto sempre valido: guardati intorno, e vedrai che tanta gente soffre più di te. Bella scoperta! Devo ammettere che mi vergognavo. Una sciocca viziata, ecco cos’ero, incapace persino di apprezzare le mille possibilità offerte da un cambiamento di vita come quello che avevo appena intrapreso - di mia volontà, non per imposizione esterna! Ero schifata di me stessa, ma questo non mi era d’aiuto. Pensare ad Alida, però, evitava alla mia mente di ronzare a vuoto sui miei guai personali.
    Per qualche settimana saltai il rituale del caffè. Mi sarei sentita troppo stronza se avessi cambiato bar, ma ero anche troppo in imbarazzo per tornare al bar di Alida, ora che sapevo. Mentre meditavo se questa forma di codardia fosse destinata a durare in eterno, un pomeriggio il destino mi venne in aiuto facendomi incontrare Alida in cartoleria. Quando mi vide, il suo volto s’illuminò.
    «Ciao! È parecchio che non ti vedo, dov’eri finita?»
    «Sono stata un po’ presa... sai, mio figlio, la scuola...» balbettai. Mi facevo schifo, ma lei parve non notare il mio imbarazzo.
    «Lo so, si va sempre di corsa. Ti rendi conto che non so niente di te? Dobbiamo recuperare. Hai tempo per un caffè? Da clienti, noi due sedute a un tavolino. Sì?»
    Feci appena in tempo ad annuire che Alida mi prese sottobraccio e mi trascinò al bar all’angolo. Mi sentivo fuori posto, come al solito, più del solito. Tentai di barcamenarmi nella conversazione, combattuta tra due disagi: avevo perso l’abitudine a parlare di me, e non smettevo di domandarmi cosa diavolo le fosse successo. Era vivace, allegra, comunicativa; curata nell’aspetto come quando l’avevo conosciuta, ma con qualche tocco estroso in più nel trucco, nell’abbigliamento. Il vezzo di portare i capelli dietro le orecchie con le dita era di nuovo un gesto armonioso, privo della frenesia degli ultimi tempi. Alida non era tornata se stessa; era diventata un’altra.
    «... così mi sono iscritta a un corso in piscina. Mi sono detta: a cinquantotto anni sarà ora che impari a nuotare! Tu hai confidenza con l’acqua?»
    «Non ho più confidenza con niente.» Mi venne così, direttamente fuori dalla bocca, senza chiedere il permesso al mio cervello.
    Alida mi guardò negli occhi, tirò un respiro profondo e si rilassò contro lo schienale della sedia. «Ti ho messa in imbarazzo, vero? No, non negare, ti capisco. Avremo scambiato sì e no cento parole da quando ci conosciamo, e adesso ti porto qui e ti tramortisco di chiacchiere...» Sorrise. Sembrava così spensierata! «Adesso però raccontami di te. Non ti ho ancora chiesto cosa ci fai da queste parti.»
    Basta poco a stappare un contenitore troppo pieno. Iniziai a raccontare, e quando tacqui e mi guardai intorno, il locale era vuoto e il barista stava pulendo il banco prima della chiusura. Fuori si era fatto buio.
    «Oddio! È quasi ora di cena!» mugolai, pensando alla famiglia che, a casa, certo meditava di dare inizio alle mie ricerche... visto che avevo il cellulare scarico, tanto per cambiare.
    «Vai, vai» rise Alida. «Ci vediamo domani... se vieni a prendere il caffè da me.»
    Esitai. Non potevo lasciarla andare senza chiederle scusa.
    «Mi dispiace di non essere tornata dopo... quella mattina. Mi mancava il coraggio.»
    «Lo so. Non è facile guardare in faccia una persona che sta per morire.»
    La fissai, basita. «Ma... era tutto vero? Voglio dire, adesso ti vedo qui, serena, allegra... Io... non capisco.»
    «Era tutto vero, sì.» Il suo viso aveva la solennità di certe icone. «Però ho trovato qualcosa per cui andare avanti.»
    «Tuo marito... tua figlia?» Sapevo che aveva una figlia di trent’anni.
    Lei fece segno di no con la testa, negli occhi un guizzo giocoso. «Niente marito, niente figlia. Qualcosa di meglio.» Tacque con aria misteriosa, e io non insistetti. Ci salutammo dandoci appuntamento per l’indomani.
    Cosa posso dire? Toccato il fondo, non si può che risalire. Le uscite con Alida segnarono per me l’inizio del disgelo. Ci trovavamo quasi ogni pomeriggio, visto che io non avevo impegni e lei aveva deciso di lavorare part-time nel mese di dicembre. Qualche volta ci fermavamo al bar, nella saletta delle donne - lei la chiamava così - ma spesso ce ne andavamo in giro per le vie di Lavarons,e lei mi raccontava passato e presente di ogni negozio e palazzo e giardino, come un cicerone sui generis. Conoscere Alida, quanto a contatti, equivaleva a conoscere il paese intero; ci era nata e ci viveva da sempre, e il lavoro da barista le aveva dato un ottimo punto d’osservazione sulle vite altrui. Passeggiare con lei era come visitare il museo delle cere.
    «Vedi quel signore grasso davanti alla banca? Era a scuola con me. Passava delle ore con le dita nel naso; adesso chi lo direbbe, a vederlo così tutto d'un pezzo? E la donna al suo fianco... un bel tipo, quella, ne ha fatte di cotte e di crude quando era più giovane. Pensa che quando è emigrata in Germania...» E giù a raccontare, mentre io mi perdevo tra tutti quei ritratti, che mi facevano sentire sempre meno spaesata. Attraverso gli occhi di Alida, i pesci dell’acquario si trasformavano in persone, meno perfette di come le avevo viste all’inizio, ma di sicuro più reali. Il mio mondo tornava ad essere tridimensionale.
    Ora che ci frequentavamo, avevo scoperto perché Alida era rifiorita nonostante un cancro, il Parkinson e un marito fuggitivo. Era una cura infallibile, vecchia quanto il mondo, che non sempre si ha la fortuna di incontrare. Un nuovo amore: che banalità! Ironia della sorte, Alida era tra i fortunati. Inutile dire che crepavo dalla curiosità di sapere i dettagli, ma su quell’argomento lei rimaneva misteriosa. Mi aveva detto soltanto che lo conoscevo, e questo mi faceva sbizzarrire la fantasia: era il fornaio? Il tecnico del gas? Il postino? Il padrone dell’autosalone? Glieli proponevo tutti, e lei scuoteva la testa ridendo, ma manteneva la bocca cucita sulla sua identità. In cambio mi spacciava particolari piccanti: era un amante focoso; gli piaceva la biancheria intima rossa; aveva avuto uno stuolo di donne ai suoi piedi ma non si era mai sposato.
    Così passavano le nostre ore insieme; ma non voglio far pensare che fosse tutto rose e fiori. C’erano giorni in cui Alida era svagata, e nel suo sguardo covava un’ombra che non si lasciava dissipare. Conoscevo quell’ombra, e sapevo che lei non desiderava parlarne. Voleva vivere, soltanto vivere. Considerava uno spreco di tempo spendere parole sui suoi problemi, e io facevo del mio meglio per assecondarla.
    Stavamo bene insieme. Lei mi aiutava a capire che per vivere si deve avere il coraggio di rinunciare alle certezze, e io la aiutavo... in realtà non so se l’aiutavo davvero. Forse grazie a me si sentiva importante, oppure accettata senza compatimenti per la sua condizione; o forse mi fa solo piacere crederlo.


    La sera del ventiquattro dicembre il paese era nel pieno dei festeggiamenti. Gli alberi che circondavano la piazza erano rivestiti di minuscole luci bianche, e così la fontana, che spiccava alta tra le bancarelle del mercatino di Natale. Tutte le vie principali erano addobbate, ognuna con un tema e un colore specifico: una via dedicata a Babbo Natale, con festoni di luci rosse e decori in tono, una via ispirata ai fiocchi di neve, con luci azzurrine, e così di seguito. Nonostante il freddo pungente, i bar non avevano ritirato i tavolini, e molte persone, più o meno imbacuccate, sedevano a sorseggiare il furlan - l’aperitivo favorito del posto - godendosi lo spettacolo della piazza illuminata.
    Tra quelle persone c’ero anch’io, insieme a Lorenzo ed Enrico, a godermi lo spettacolo. Non avrei voluto essere in nessun altro posto al mondo. Ci vuole poco per essere felici, a volte. Basta sentirsi al posto giusto al momento giusto. Con le persone giuste.
    Mentre sorbivo il mio furlan, sentii il suono inconfondibile del motore di una Harley-Davidson farsi strada tra le musiche natalizie delle bancarelle.
    «Vediamo chi è questo fenomeno che va in moto con tre gradi sotto zero» dissi a Lorenzo.
    «Uno che si deve rinfrescare le idee, sicuro» ghignò lui.
    La moto si avvicinava a passo di lumaca per via del traffico di pedoni. La aspettai con lo sguardo; mi sono sempre piaciute le Harley e i loro centauri. Quando però la moto giunse alla nostra altezza, la mia attenzione venne attirata da una mano che spuntava alle spalle del motociclista e sventolava un saluto. Era un saluto destinato a me.
    «Alida!» A bocca aperta guardai passare la mia amica - sciarpa verde con lucine in tinta, sulla testa un berretto da Babbo Natale - e il suo cavaliere.
    «Oddio, no! Geppetto no!»
    «Chi è Geppetto?» fece Lorenzo, ignaro.
    «Lascia stare» esalai, alzando la mano in un patetico tentativo di rispondere al saluto.
    Mi venne da ridere. Guardai il calzolaio con i suoi jeans e il giubbotto borchiato; aveva sostituito il berretto di lana con una bandana, e portava i capelli grigi raccolti in una lunga coda di cavallo. Alida era raggiante. Ricordai le sue parole: “un amante focoso” . E io che lo volevo infilare nella fiaba di Pinocchio.
    «Sono un’idiota» conclusi. Mio marito annuì. Sembrava convinto.

    Edited by tar-alima - 17/12/2008, 18:22
     
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  2. Piscu
     
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    ti appioppo un 3: la storia si legge piacevolmente, lo stile e i toni riescono a coinvolgere.

    a separarti dal 4 ci sono due particolari: la conclusione del racconto mi è sembrata un po' scontata. cioè, non che volessi il miracolo di babbo natale, ma mi aspettavo qualcosa di più esaltante. in secondo luogo, la parte introduttiva, che giustifica anche il titolo: non ha alcun ruolo nel resto del racconto, quindi mi pare superflua. e siccome sono uno fissato sui titoli, attingerlo da un particolare ininfluente non mi piace.

     
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  3. federica68
     
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    ciao Grazia
    lo stile è impeccabile, come sempre, ma su questo non avevo dubbi.
    L'unica cosa che mi lascia un po' perplessa è la rapidità del finale.
    Voglio dire, ci avrei visto un po' più di "suspence". Tipo, Alida che racconta a Elena qualcosa di più del suo amante, Elena che si fa chissà quale idea, fino a vedere di chi si tratta in realtà...

    così, ci lasci in sospeso con la frase sul rimedio antico come il mondo, e ci ritroviamo Alida e Geppetto sulla moto senza alcun preavviso.
    Il che, visti i ritmi del resto del racconto, è un po' spiazzante.
    Fra l'altro, oltre a un rapidissimo accenno a Geppetto, non sappiamo altro di lui, e non facciamo in tempo a "interiorizzare" il tipo di personaggio.

    Che so, magari Elena gli porta le scarpe e nota qualcosa di lui, tipo che è brusco, oppure non lo è, o che nel suo lavoro è bravissimo, o che ha un modo di dire particolare, o che ha un sorriso particolare, o che so io, insomma qualcosina che ce lo renda più vicino senza rovinare la sorpresa finale.

    magari Alida gli porta il caffè in quelle tazzine di polistirolo, sai come fanno i baristi, mentre Elena è lì con le scarpe e nota che sono molto amici, poi magari Alida le racconta che sono stati a scuola insieme fin dalle elementari, qualche aneddoto di quando erano bambini, che ne so.
    Per intorbidare le acque puoi farle raccontare aneddoti di altri personaggi: così la prima parte dell'amicizia fra le due donne, quando è ancora agli albori e non va sul personale, ti servirebbe anche a far ambientare la protagonista. Alida le racconta che l'edicolante da piccolo era una peste, o che la cartolaia era un maschiaccio, o che so io, e fra l'altro Elena inizia a conoscere meglio il suo nuovo paese...

    Inoltre quoto quello che ha detto Piscu sul titolo.
    Capisco che il passaggio della protagonista dall'essere focalizzata su se stessa a focalizzarsi sulla sua nuova amica è fondamentale nel racconto, anche se forse potresti comprimere un po' la prima parte a favore della seconda, come ti dicevo, ma il titolo? Ci vedrei qualcosa di più generico che non la carta d'identità che compare solo all'inizio e non ricompare più (come è giusto che sia, ai fini del racconto).

    metto un 3. Bello pieno, ma 3.

    Ciao
    F




     
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  4. tar-alima
     
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    Grazie Piscu, grazie Fede.
    Per il titolo, sono d'accordo solo a metà. A dire la verità l'avevo battezzato di getto e poi non ci ho più pensato, il che non è giusto; mi suonava bene perché credo che il problema nella storia sia proprio l'identità della protagonista, che viene destabilizzata dal cambiamento. Però questo non vuol dire che non si potesse trovare un titolo migliore!
    Lo squilibrio tra la prima e la seconda parte, con finale troppo rapido, aveva dato da pensare anche a me (la prima parte era ancora più lunga, prima!). Visto che anche tu, Fede, me lo confermi, credo che tenterò di sviluppare la seconda parte.
    Piscu: qualcosa di più esaltante... eh, non so cosa intendi per esaltante. Per me è molto esaltante l'idea che una persona condannata e abbandonata trovi ancora motivi di gioia nella sua vita, e per di più tramite un personaggio che sembra l'insulsaggine personificata!
    Però, ognuno si esalta per cose diverse... e per di più io non sono Proust! :P
    W I MISTERI DEL QUOTIDIANO!
    Grazie per avermi letta.

    P.S. Fede, tempismo perfetto! :rolleyes:
     
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  5. federica68
     
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    CITAZIONE (tar-alima @ 7/12/2008, 14:43)
    P.S. Fede, tempismo perfetto! :rolleyes:

    ;)
     
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  6. Piscu
     
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    CITAZIONE (tar-alima @ 7/12/2008, 14:43)
    Piscu: qualcosa di più esaltante... eh, non so cosa intendi per esaltante.

    era solo il mio modo per esprimere le stesse impressioni descritte da federica dopo di me: un finale un po' affrettato, per cui non si viene preparati. ;)
     
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  7. shivan01
     
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    ciao
    come sempre le tue cose sono laboratori di stile. Complimenti.
    Ho due appunti da fare sul racconto.
    1) anch'io trovo la parte introduttiva totalmente avulsa dal resto del racconto. Ci sta pure bene, ma è sproporzionata come dimensioni rispetto al resto. D'altra parte, se dici che era più lunga e che l'hai tagliata, credo che tu ne convenga.
    2) questo è purtroppo un appunto di base. Diversi racconti questo mese hanno questo "difetto", secondo me. Sono troppo "raccontati". Non c'è una vera e propria azione in corso; è piuttosto un lungo flashback. Non so se sia una questione di gusti, forse sì, ma trovo che questo tipo di impostazione tolga mordente alle storie sin dal principio, e poi si fa una gran fatica. Mi sono trovato a scorrere velocemente per vedere come andasse a finire, ma non tanto per curiosità, quanto piuttosto per una percezione che ho avuto che la narrazione scorresse un po' lenta.

    la traccia natalizia, infine, è soltanto accennata.

    Scusa, opinioni personali

    Voto 3, comunque, per lo splendido stile


    OOPS HO DATO VOTO NULLO! JAKKEN TI PREGO DI CONTEGGIARE UN TRE, SCUSATE!
     
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  8. tar-alima
     
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    Per fortuna che non mi sbaglio solo io!
     
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  9. x_LUIS_x
     
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    Ciao!
    Bel racconto introspettivo, scritto magnificamente. La forma è praticamente perfetta, scivola via come acqua di ruscello.
    La trama, però, è leggermente contorta, con qualche digressione eccessiva => ma non risulta mai stucchevole.
    Se devo essere sincero ho apprezzato maggiormente la fase iniziale, quella dell"adattamento", per intenderci. Mi ha coinvolto moltissimo l'angoscia della protagonista, la sua alienazione.
    Proprio per questo mi ha un po' deluso la "virata" sulla vicenda della barista.
    Speravo avessi insistito sulle tribolazioni della protagonista.
    Tuttavia ho pochi dubbi ad assegnare un quattro al racconto (anche se con un meno virtuale per quanto ho appena menzionato).
    Un saluto!
     
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  10. tar-alima
     
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    Modificato il racconto, soprattutto in base al commento di Federica, che mi ha confermato una sensazione.
    Mo' medito sul titolo e sull'introduzione... :s...i:

    Intanto grazie a tutti.

    x Nicola: mi sa che la modifica va in senso opposto ai tuoi gusti, però spero si sia ottenuto un maggiore equilibrio.
     
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  11. shivan01
     
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    ma ci mancherebbe, Grazia. Il racconto è tuo è solo te hai il diritto di farne ciò che vuoi

    ciao
     
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  12. federica68
     
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    letto

    così mi sembra più equilibrato

    contenta se ti sono stata utile ;)
     
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  13. Diaphane
     
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    Ciao Grazia, premetto che il racconto mi è piaciuto moltissimo, stile impeccabile, leggerti è stato un vero piacere.
    Riguardo la storia in sé... la prima parte mi ha coinvolto molto, forse troppo :P , avendo vissuto due traslochi all'estero mi sono rivista in questa protagonista con le sue paure e le sue incertezze, e la sensazione di non avere più radici... insomma, mi sembrava di leggere la mia vita... quindi ti dico, per me, la prima parte funziona benissimo...
    Mi ha meno coinvolto la seconda invece, ma temo che sia un mio limite, e non certo del racconto (come dicevo, sono rimasta troppo coinvolta dalla prima parte ;) )
    Quindi eliminando ogni "soggettività" se mi passi il termine, visto che oscillavo fra il 3 e il 4, ti ho dato 4... :)
     
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  14. tar-alima
     
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    Grazie Diaphane, posso chiederti quando hai letto il racconto? Per capire se era la versione nuova o quella vecchia. :)
     
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  15. Diaphane
     
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    Una mezz'oretta fa, forse meno... Ho letto, votato, scritto il commento... ;)
     
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30 replies since 6/12/2008, 21:34   427 views
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