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STRADA PER L’IGNOTO
Quando il dottor Cipriani uscì dalla Sapienza, la città era addormentata. Il sole filtrava dai tetti dei palazzi, irradiando i suoi raggi per le vie urbane. Era caldo, maledettamente caldo. Metà degli abitanti avevano già lasciato le abitazioni, alla ricerca del refrigerio del mare o della montagna. Ma non Cipriani. Camminava assorto. La testa china sull’asfalto, le mani nelle tasche dei pantaloni. Calzava un paio di occhiali da sole, che riflettevano il deserto di catrame in cui navigava. Nonostante grondasse sudore da ogni poro, non dava segni di intolleranza. “Potenza della concentrazione” avrebbe detto uno psicologo. Era così sconnesso dalla realtà da non avvertire stimoli esterni. Solo una cosa catturava la sua attenzione: la conferenza del Professor Nicolai, a cui aveva assistito alcuni minuti prima. Nelle orecchie gli echeggiavano ancora gli applausi. Erano scrosciati, d’un tratto, in un gorgoglio simile a quello di una cascata; seguiti da una marea umana, che si era increspata verso la cattedra come un’onda sospinta dal vento. La calca lo aveva compresso, confinandolo in un vortice interiore che lo aveva trascinato in un lontano passato. Un’epoca dai cui fondali emergevano immagini sbiadite e ricordi sfumati. Brevi sequenze in cui due ragazzi tiravano calci a un pallone oppure studiavano assieme tra i banchi universitari. Uno di quei due giovani riusciva in tutto ciò che faceva; l’altro, invece, collezionava delusioni e faticava per ottenere miseri risultati. Poi, un giorno, le strade dei due si separarono. Uno emigrò negli Stati Uniti, per lavorare nelle più rinomate cliniche; l’altro, invece, accettò un posto in uno squallido ospedale di provincia. Il resto era storia recente. Il professore era ritornato nella sua terra e, da una cattedra, rendeva omaggio ai vecchi concittadini; narrando imprese già immortalate nei manuali di chirurgia dell’intera nazione. Cipriani lo aveva ascoltato dalla platea, colmo d’invidia. Invidia, forse non sarebbe il termine giusto per descrivere il senso di scoramento che lo affliggeva. Avrebbe voluto abbracciarlo, rammentare le giornate di un tempo, ma non ne aveva avuto la forza. Se ne era andato senza salutarlo, mischiandosi nella folla. “Chi ha tutto e chi non ha niente…” si piangeva addosso. Stava ancora rimuginando, proiettato nei tortuosi meandri che solo una mente frustrata può percorrere, quando un sussurro lo riportò alla realtà. «Perchè tormentarsi tanto, signore» disse una voce dal timbro basso e rauco. Cipriani si arrestò e guardò alla sua destra. C’era un anziano, seduto al margine del viottolo. Era appollaiato dietro a un tavolo. Gli occhi abbassati sulla superficie di legno, i gomiti puntellati per sostenere il mento. Stava osservando una fila di carte da gioco disposte in una specie di semicerchio. Al centro della figura, una moneta danzava alla stregua di una trottola. Un cappello logoro, dalla forma cilindrica, oscurava la parte superiore del volto dell’uomo. Fu per tale ragione che Cipriani ne intravide solo la piccola bocca sussurrante. «Dice a me?» domandò il dottore. L’anziano sorrise a denti stretti. Con movimenti flemmatici, estrasse ulteriori carte dal polsino della camicia e le posizionò davanti a sé. «Vede qualcun altro?» rispose. Cipriani si guardò attorno, ma non notò che pareti violate da osceni graffiti e scalinate che scendevano e risalivano lungo le sinuose vie medievali. «Non capisco…» farfugliò con un filo di fiato. Il vecchio alzò, pian pianino, la testa. Due pupille guizzavano in un grigio innaturale. I lineamenti erano netti e marcati; tanto da dare l’idea di esser stati scolpiti dallo scalpello di un’artista. Il dottore venne calamitato dallo sguardo, profondo come la gola di un ghiacciaio. La sua intimità fu perforata da occhi troppo asettici per essere umani. Gli sembrò di vedere il biancore delle cornee divorare lentamente le iridi e avvolgere il tutto, in un mantello di nebbia. Fu preda di un improvviso capogiro. I sensi si assopirono, la rilassatezza gli inebriò i nervi. Ebbe l’impressione di precipitare verso l’ignoto, dipingendo bizzarre spirali nell’etere. Si sentì alienato dal pianeta; prigioniero di una dimensione in cui ogni cosa era imperscrutabile. Compresi i rumori, con suoni dilatati in una cacofonia indefinita e irriproducibile. Poi un miagolio, sempre più martellante, si fece strada nel concerto di note impazzite. Il dottore era a un passo dalla follia. Le labbra protese alla massima estensione, le sopracciglia inarcate, le mani sulle orecchie. Cacciò un urlo e, con uno scatto, si destò dall'orrore. Il vecchio era sparito e con lui tutto il resto. Non si trovava più in giro per la città, ma sotto le lenzuola di un letto. La pelle appiccicosa, la lingua impastata. Si guardò intorno, con occhi riluttanti nel mostrare le quattro mura che lo attorniavano. Le coperte erano impregnate dal sudore, mentre la sveglia, posta su un comodino, strillava. Era nella sua casa, non aveva dubbi, ma come vi era giunto? E poi chi era il vecchio? E cosa era successo durante l’incontro? Non era in grado di rispondere. Doveva coprire un buco temporale d'un paio d'ore. Per un momento, pensò di essere stato vittima di un delirio allucinatorio. In seguito, si convinse di essersi fatto suggestionare, al punto da rincasare soprappensiero e cadere vittima di viaggi onirici. Anche Frizzi, un collega del reparto di neurochirurgia, era d’accordo con lui. Gli aveva raccontato che, di solito, le persone ipnotizzate perdono la capacità di ricordare quello che hanno fatto. Dunque, era stato ipnotizzato? E in caso di risposta affermativa, quale ne sarebbe stata la ragione? Per sciogliere gli enigmi, decise di indagare sul conto del vecchio. Tornò nella zona in cui lo aveva incontrato, ma non trovò niente che lo potesse confortare. Interrogò gli abitanti del vicolo, tuttavia non gli furono di aiuto. Nessuno aveva mai visto quell'uomo. Fu il fato a distogliere il dottore dalla ricerca. Un’occasione che attendeva da anni, e che si materializzò qualche tempo dopo l’incontro con il vecchio; quando la di-rezione dell’ospedale fu chiamata a sostituire l’assistente del primario del reparto di neurochirurgia, da poco scomparso. Tutte le attenzioni ricaddero su Cipriani e ciò fu piuttosto sorprendente, a giudicare dal modesto curriculum del medico. La decisione fu adottata per volere dello stesso primario, impressionato dai colloqui intrattenuti negli ultimi mesi con il dottore. Col trascorrere dei giorni divenne sempre più frequente vedere Cipriani disquisire con primari e professori. Aveva risposte per qualsiasi genere di domande. Risposte precise e oculate, che facevano la fortuna di coloro che gli chiedessero i pareri. Aveva acquisito una facilità di dialogo che non aveva mai manifestato e una cultura medica straordinaria. Non sapeva spiegarselo neppure lui, ma il suo cervello era diventato una miniera di conoscenze; con definizioni e spiegazioni che si materializzavano quasi fossero allestite da un pistone automatico intento a confezionarle su misura. Dopo aver ingoiato molti bocconi amari, era giunto il suo momento di gloria. Nonostante i successi lavorativi, però, il suo animo era afflitto da un'agoscia di cui non aveva mai patito. Quando non lavorava, limitava al minimo indispensabile le sue apparizioni pubbliche. Si sentiva osservato e schernito da tutti. Se durante una passeggiata udiva ridacchiare i passanti pensava che stessero deridendolo per il suo aspetto fisico o per la sua andatura goffa. Cominciò a soffrire d’insonnia e a ingerire fiumi di tranquillanti. Nelle spire del cervello gli si aprì una breccia, in cui copulavano i peggiori demoni contro i quali un uomo può trovarsi a lottare. I mostri che si nascondono tra le pieghe della mente e che si sfamano di fobie e insicurezze. Infine, una sera, in un turbine di rumori assordanti, vide le quattro mura della camera da letto stringersi verso di lui. Avanzavano impietose disperdendo l’ossigeno dalla stanza. Un metro, due metri, tre metri… sempre più vicine, sempre più minacciose. Sarebbe voluto scappare, ma non riusciva a muoversi. Le gambe non rispondevano ai suoi ordini. Era rimasto incantato dall’impossibile. Cercò di proteggersi con le braccia, nel tentativo di respingere le pareti. Schiumava… ansimava… pregava. L’aria divenne sempre più pesa; fino a farsi rarefatta, irrespirabile. Doveva individuare una via di fuga e farlo velocemente: non poteva resistere. La gola iniziò a bruciargli, sotto la spinta dei succhi gastrici che avevano preso a serpeggiargli fuori dalle labbra. Estrasse una semi automatica dal comodino e, prima che le mura lo spappolassero in una poltiglia di carne informa, si fece saltare le cervella.
La pace scese, come neve dal cielo, sul cadavere di Cipriani. Fiotti di sangue zampillavano sulle coperte, mescolandosi con la materia cerebrale. I rumori erano svaniti, le mura si trovavano laddove erano state erette. In un’altra dimensione, dominata da coltre nebulose e da urla deliranti, l’anima di Cipriani era braccata dai demoni che non era riuscito a sconfiggere. Mostri che si erano nutriti delle sue paure, e che ora avevano assunto spoglie tangibili. Sogghignavano nella nebbia, pronti ad artigliarlo e farlo succube dei loro desideri più perversi. Solo adesso Cipriani capiva ciò che era avvenuto. D’altronde, la morte rende saggi le menti e conferisce un punto di vista diverso; più riflessivo. Aveva desiderato essere come Nicolai, il professore, e il vecchio lo aveva accontentato. Gli aveva trasmesso pregi e difetti dell’amico, compreso il substrato che i superficiali non riuscivano vedere. Un insieme di paure e di frustrazioni, celato sotto la maschera di quotidianità mostrata nei rapporti interpersonali. Una serpe che lo aveva portato a rifugiarsi nello studio; ovvero a imboccare una via per lenire il potere dei propri demoni e provare a se stesso di non essere una nullità. Nicolai conosceva il suo male, lo sapeva domare. Cipriani invece, infatuato dall’oro che luccica, lo aveva ignorato. Ne aveva subito l’onda d’urto e si era spezzato. Il suicidio poi aveva completato la disfatta, liberando i demoni dalla prigione fisica del suo cervello. Ora erano materia, pronti a succhiargli l’anima in un abisso di sofferenza eterna. Doveva di nuovo fuggire, fluttuando verso un’insperata via di fuga. Una cosa più di tutte gli frullava nei pensieri: il rimpianto per aver ceduto al dolore, preferendo percorrere la strada che, dalle angosce di ogni giorno, conduce nel regno dell’ignoto.
Edited by Giurista81 - 13/9/2008, 23:08
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